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Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 15/10/2020, 1:50
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 24/10/2020, 0:24
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 24/10/2020, 0:37
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 24/10/2020, 0:59
da Axel del Riope
Sto pezzo fa cagare (al primo ascolto)...aspetto recensione di XCLARAX...del resto ho scoperto LORO grazie a LEI!

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 24/10/2020, 1:02
da Axel del Riope
...nessun paragone con la seguente...

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 25/10/2020, 10:19
da dboon
Ghostpoet


Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 27/10/2020, 16:33
da Alec Empire


Ad inizio degli anni ‘90 Eddie Vedder faceva il benzinaio e amava ciondolare sulle spiagge di San Diego con una tavola da surf. Eddie era un poeta tutt’altro che sprovveduto, però. Sapeva indagare bene nelle folate del vento ruffiano della California, coglierne le ansie di libertà, le promesse non mantenute e canalizzare tutto in quel sottile disagio esistenziale che di lì a poco avrebbe sporcato il sogno americano con le nubi depressive del grunge. Parola vuota, in realtà, lì come a Seattle, perchè ognuno di quei ragazzi - Andrew, Kurt, Layne, Chris o Shannon - era disadattato a modo proprio e avrebbe seguito un personale percorso di autodistruzione. Ecco, Eddie era sveglio, attento, con gli occhi rivolti a se stesso ma anche a scrutare il mondo là fuori per riscriverlo e cantarlo, con rabbia si, ma senza compiacersi della propria coltre di nebbia. I Pearl Jam erano diversi dagli altri infatti, figli di Neil Young e insospettabili parenti - sempre più prossimi, col passare degli anni - di Bruce Springsteen, dunque significativamente lontani dal nichilismo punk e da derive metalliche. Alla fine si trattava sempre della cara, vecchia America, solo che quel posto era pieno di mostri. E vittime. E problemi.

Un giorno Eddie lesse di Jeremy Wade che si era sparato in classe, davanti alla professoressa e a tutti i suoi compagni. Quella mattina era entrato in ritardo e sarebbe dovuto passare dalla segreteria per farsi rilasciare un permesso, ma non lo fece. Non era per questo che si alzò dal banco, non si diresse verso la porta dell’aula. Semplicemente si sistemò in un punto, quasi al centro, estraendo una Magnum ed affermando che in realtà quella mattina era venuto solo per fare quello che, poche decine di secondi dopo, avrebbe fatto. E lo fece.

Eddie Vedder stava scrivendo le poesie destinate a diventare i testi di ‘Ten’, il folgorante debutto dei Pearl Jam, e decise di trasformare anche Jeremy in poesia. Partendo dalla lettura della notizia e dalle voci delle breaking news idealizzò un quadro del ragazzo, del suo contesto familiare, dei suoi pensieri, e poi scrisse un testo rendendolo via via sempre più ermetico, urgente, condiscendente a quella vocalità ‘importante’ che contraddistingue il suo modo di cantare. Così (ri)nacque ‘Jeremy’, pezzo di nervosa melodia ‘alternativa’ dove quel silenzioso ragazzo suicida si sovrapponeva nei pensieri di Eddie ad un altro suo amico che si era scelto un epilogo simile.

Frasi semplici, banali. ‘King Jeremy the wicked ruled his world’ perchè quel ragazzo s’era preso in spalla il suo carico di pensieri pericolosi erigendolo a suo fortino, suo mondo personale. E nel suo mondo era lui che comandava, e nel suo mondo era lui che aveva deciso di distruggersi ‘spoking in class today’, parlando in classe. Salutando senza salutare. ‘Try to forget this, try to erase this from the blackboard’. No, quello che era successo non lo si poteva cancellare da una lavagna, anzi. Presto avrebbe trovato drammatici sequel, sempre tra le mura scolastiche. Presto Michael Moore avrebbe ricordato in ‘Bowling a Columbine’ quanto accaduto in Colorado, dove due ragazzi armati erano entrati a scuola compiendo una strage con la sistematicità di un videogame sparatutto. E Gus Van Sant avrebbe girato ‘Elephant’, ricostruendo i possibili preparativi di quel massacro in un film gelido, che poneva per l’ennesima volta l’America di fronte al problema delle armi. Della banalità con cui erano custodite in un cassetto, della facilità per un ragazzo di procurarsele e di renderle complici di un modo di mettere fine ad un mondo che non ci piace prima ancora di conoscerlo. Il proprio, l’altrui.

‘Jeremy’ m’è tornata in mente ieri, dopo anni che non l’ascoltavo. E ho avuto, ancora una volta, i brividi. Perchè alla fine si, è solo una canzone. Tu valuti lo stile, magari non ti piace il genere, quatto minuti ed è finita. Però c’è una storia dietro, c’è una vita. E quella non la cancelli dalla lavagna.

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 27/10/2020, 18:30
da Rand Al'Thor
Grazie Alec. Jeremy mi ha sempre colpito ma non avevo mai compiuto il passo successivo di scoprire cosa c'era sotto...
Ora sono contento di non averlo fatto, perché leggerlo così è molto meglio che farlo da una pagina di wikipedia

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 28/10/2020, 16:28
da Alec Empire
I Led Zeppelin erano quattro bohémien prestati al rumore. Ascolti il blues elettrico degli esordi e si, ne rimani stordito. Ti inoltri nei grovigli chitarristici del Page di ‘Houses of the Holy’ o - meglio ancora - dell’immenso ‘Physical Graffiti’ e ti trovi di fronte ad un arrangiamento per due/tre o più chitarre che alla fine sbrigava sempre tutto lui da solo, notte dopo notte, sovraincisione dopo sovraincisione. Rimani annichilito dal tocco granitico di Bonzo Bonham dietro le pelli, Plant e i suoi ripidi falsetti trasudano teatralità e quei ricami basso/tastiera di John Paul Jones traboccano di barocco. Eppure, scavando scavando, c’è un’anima agreste nei quattro di Londra, un’esigenza di purezza. Magari non immediata, quando all’inizio della storia l’intento era andare oltre i Yardbirds, suonare più sporchi, massicci, esagerati. Magari non quando la prima cosa che Page strimpellava era il solito jump blues o il rockabilly che da sempre e per sempre avrebbero costituito un sicuro rifugio stilistico.
Esiste però un momento della storia della band in cui il tempo si fermò e tutto si fece rarefatto, magico, incantevole. E lì gli Zeps scoprirono la semplicità dell’arrangiamento acustico, la povertà gentile e rassicurante del folk. Accadde tutto nel Novembre 1969, quando si recarono nel cottage gallese di Plant per comporre i brani del terzo album.
Era passato meno di un anno, due dischi usciti e già non dovevano dimostrare più niente a nessuno: il loro suono era una delle cose più eccitanti in circolazione. Non rimaneva che fare a modo proprio, fregarsene di quello che i capelloni si aspettavano da loro - ovvero l’ennesimo attacco frontale heavy blues - e cercare ispirazione nel silenzio della natura.

Circondati da mogli, figli, fidanzate e roadies, gli Zeps erano comunque soli con loro stessi nel casolare rustico a poca distanza da Machynlleth, Galles. Bron-yr-Aur si chiamava quel posto, che tradotto dal gallese evoca le suggestioni visionarie di ‘seno dorato’ e, per estensione, ‘collina dell’oro’. Un sapore agreste e country folk che ben si sposava al ‘modo’ di essere dei quattro musicisti, casinari nei tour quanto riservati e schivi nel quotidiano, pur nella loro innata stravaganza molto british.
Nella fattoria però il loro ego si azzera del tutto: nell’omonimo ‘Bron-Y-Aur Stomp’ il suono nasce tra i sentieri rispolverando i cliches della musica pastorale. Le rockstar lasciano il posto ai campagnoli e al sapore naïf delle passeggiate in compagnia della persona amata (As we walk down the country lanes I'll be singin' a song, you hear me callin' your name/ Hear the wind whisper in the trees, Tellin' Mother Nature 'bout you and me) in una rievocazione edenica dell’amore in cui sono gli elementi naturali a scandire I tempi del cuore (Well, if the sun shines so bright, or our way is dark as night/ The road we choose is always right, so fine).

Luci e ombre, giorno e notte, l’ambiente come unica realtà che accoglie l’uomo colto nelle sue più intime passioni. Un Paradiso rudimentale privo di ‘altrove’, un circuito agreste chiuso, sospeso, incontaminato. Sarà per questo che la band, oltre a comporre il terzo disco, gettò addirittura le basi per quello che sarebbe stato il quarto. Tutto lì, a Bron-yr-Aur.



Nella scaletta di ‘Physical Graffiti’, cinque anni dopo, apparve un outtake del periodo gallese. Nient’altro che uno strumentale di due minuti nato da un arpeggio di Page, che parte quieto per farsi poi meditabondo, sommesso, fino a sfiorare il silenzio. Uno spunto melodico, un’idea mai sviluppata, l’ispirazione di un attimo, una cosa da niente. Eppure in una vecchia rivista di fine anni ’80 c’era chi, in pieno disagio esistenziale, scriveva alla posta del giornale - si mandavano ancora le lettere cartacee alle redazioni - dicendo di ‘morire (emotivamente parlando) su quelle note’. Merce rara, 'morire' tra le pieghe di una canzone. Roba da grande musica, non da hit stagionale.


Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 03/11/2020, 20:03
da dboon
Other lives


Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 07/11/2020, 20:16
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 08/11/2020, 19:02
da SoTTO di nove

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 10/11/2020, 22:12
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 11/11/2020, 22:15
da Gargarozzo

Re: [O.T.] Che canzone mi metto (in testa) oggi?

Inviato: 11/11/2020, 22:17
da markome
Alec Empire ha scritto:
28/10/2020, 16:28
I Led Zeppelin erano quattro bohémien prestati al rumore. Ascolti il blues elettrico degli esordi e si, ne rimani stordito. Ti inoltri nei grovigli chitarristici del Page di ‘Houses of the Holy’ o - meglio ancora - dell’immenso ‘Physical Graffiti’ e ti trovi di fronte ad un arrangiamento per due/tre o più chitarre che alla fine sbrigava sempre tutto lui da solo, notte dopo notte, sovraincisione dopo sovraincisione. Rimani annichilito dal tocco granitico di Bonzo Bonham dietro le pelli, Plant e i suoi ripidi falsetti trasudano teatralità e quei ricami basso/tastiera di John Paul Jones traboccano di barocco. Eppure, scavando scavando, c’è un’anima agreste nei quattro di Londra, un’esigenza di purezza. Magari non immediata, quando all’inizio della storia l’intento era andare oltre i Yardbirds, suonare più sporchi, massicci, esagerati. Magari non quando la prima cosa che Page strimpellava era il solito jump blues o il rockabilly che da sempre e per sempre avrebbero costituito un sicuro rifugio stilistico.
Esiste però un momento della storia della band in cui il tempo si fermò e tutto si fece rarefatto, magico, incantevole. E lì gli Zeps scoprirono la semplicità dell’arrangiamento acustico, la povertà gentile e rassicurante del folk. Accadde tutto nel Novembre 1969, quando si recarono nel cottage gallese di Plant per comporre i brani del terzo album.
Era passato meno di un anno, due dischi usciti e già non dovevano dimostrare più niente a nessuno: il loro suono era una delle cose più eccitanti in circolazione. Non rimaneva che fare a modo proprio, fregarsene di quello che i capelloni si aspettavano da loro - ovvero l’ennesimo attacco frontale heavy blues - e cercare ispirazione nel silenzio della natura.

Circondati da mogli, figli, fidanzate e roadies, gli Zeps erano comunque soli con loro stessi nel casolare rustico a poca distanza da Machynlleth, Galles. Bron-yr-Aur si chiamava quel posto, che tradotto dal gallese evoca le suggestioni visionarie di ‘seno dorato’ e, per estensione, ‘collina dell’oro’. Un sapore agreste e country folk che ben si sposava al ‘modo’ di essere dei quattro musicisti, casinari nei tour quanto riservati e schivi nel quotidiano, pur nella loro innata stravaganza molto british.
Nella fattoria però il loro ego si azzera del tutto: nell’omonimo ‘Bron-Y-Aur Stomp’ il suono nasce tra i sentieri rispolverando i cliches della musica pastorale. Le rockstar lasciano il posto ai campagnoli e al sapore naïf delle passeggiate in compagnia della persona amata (As we walk down the country lanes I'll be singin' a song, you hear me callin' your name/ Hear the wind whisper in the trees, Tellin' Mother Nature 'bout you and me) in una rievocazione edenica dell’amore in cui sono gli elementi naturali a scandire I tempi del cuore (Well, if the sun shines so bright, or our way is dark as night/ The road we choose is always right, so fine).

Luci e ombre, giorno e notte, l’ambiente come unica realtà che accoglie l’uomo colto nelle sue più intime passioni. Un Paradiso rudimentale privo di ‘altrove’, un circuito agreste chiuso, sospeso, incontaminato. Sarà per questo che la band, oltre a comporre il terzo disco, gettò addirittura le basi per quello che sarebbe stato il quarto. Tutto lì, a Bron-yr-Aur.



Nella scaletta di ‘Physical Graffiti’, cinque anni dopo, apparve un outtake del periodo gallese. Nient’altro che uno strumentale di due minuti nato da un arpeggio di Page, che parte quieto per farsi poi meditabondo, sommesso, fino a sfiorare il silenzio. Uno spunto melodico, un’idea mai sviluppata, l’ispirazione di un attimo, una cosa da niente. Eppure in una vecchia rivista di fine anni ’80 c’era chi, in pieno disagio esistenziale, scriveva alla posta del giornale - si mandavano ancora le lettere cartacee alle redazioni - dicendo di ‘morire (emotivamente parlando) su quelle note’. Merce rara, 'morire' tra le pieghe di una canzone. Roba da grande musica, non da hit stagionale.


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