Storia di Salvatore, gran chiavatore
Inviato: 16/09/2005, 22:24
Salvatore Mastracci faceva il cinturà ro a Porta Portese: vendeva cioè cinture di finta pelle per quattro soldi. Ad un certo punto, peró, era finito in mano agli strozzini più carognosi di Roma ed era stato risucchiato dal vortice degli interessi, precipitando nel baratro dei buffi, perchè a fare debiti, in Italia, si fa presto: si nasce già indebitati fino al collo. Il problema, poi, è pagarli, chè la vita è un lampo, volano le settimane, i mesi, gli anni, e ogni milione diventa dieci, ogni dieci, cento, finchè arriva la resa dei conti e lo strozzà to di turno deve alzare bandiera bianca, scoprendo le chiappe. L’Economia del Paese, poi, mica gira sempre come una trottola, che tutti vendono e comprano a tutto spiano e dunque mangiano a quattro palmenti. Nell’arco di una vita ci sono sempre dei momentacci di crisi e, almeno una volta, tocca ad ognuno far conoscenza con la signora Fame: una tipaccia che sarebbe meglio non incontrare mai sulla propria strada, chè a farci una passeggiata insieme, si rischia di diventare molto, ma molto cattivi. Fino al giorno che il cervello comincia a girare per conto suo, e non lo controlli più: è lui che decide, e decide sempre di far piangere qualcuno pur di mettere qualcosa sotto i denti. E a quel punto, si salvi chi puó. E’ una regola che vale per tutti, tranne che per Salvatore. Lui era proprio un buono, diciamo pure un coglionazzo. Uno dei pochi, o almeno così sembrava. Certo, era un po’ strampalato, lunatico, incazzoso. A volte faceva delle sfuriate senza senso, più che altro per sfogarsi, ma, con tutti i casini che aveva passato, si poteva pure chiudere un occhio. Era burbero e ignorante, un grosso scopatore che spesso alzava il gomito. Ma, come già s’è detto, buono e generoso. Confidava sempre nella Divina Provvidenza e, lavorando come un mulo dalla mattina alla sera, cercava di non dare di testa, convinto di riuscire a scrollarsi di dosso quei debità cci che gli lievitavano sulle spalle come montarozzi, al dieci per cento mensile. Senza considerare gli interessi degli interessi: i cosiddetti anatocismi, quelli inventati dal diavolo in persona, chè erano proprio quelli che gli avevano scavato la fossa per benino. E lui ci stava già dentro con un piede e mezzo. Perchè uscirne fuori, dalla palude degli anatocismi, una parola che pare una malattia, ed in effetti fa ammalare la gente, anzi: crepà re, non era una cosa tanto semplice, per uno che, nell’epoca di Internet e compagnia bella, vendeva cinture a cinquemilalire l’una. Diecimila per gli stranieri. Mandare avanti la baracca, chè casa Mastracci era una baracca vera e propria, per giunta tirata su alla buona su una spondina del Tevere, sotto Ponte Sublicio, si faceva sempre più dura anche per un torello come lui, che pure c’aveva due spallone da orango e le braccia da sradicatore di querce. La moglie Arabella ne sapeva qualcosa, della forza di quel bestione. D’animo buono, s’è detto, ma pur sempre un chiavone come la maggior parte degli uomini. E forse il gran problema di ‘Tore era proprio il fatto che, quando tornava a casa la sera, trovava la moglie Arabella - da giovane era stata una cellacchiona a quattro stelle, coi capezzoli delle tette a pungiglione - e, come la vedeva, perdeva la fiammella della ragione, gli montava addosso, l’infilava manco fosse una cagna e la sbatteva e risbatteva da una parte all’altra.
“Aaaah... aaah... bèccate ‘st’asso de bastoni!” sghignazzava, tutto sudato, mentre l’infilzava da par suo. E, dopo anni ed anni, sembrava non essersi ancora stufato. Lei, invece, non ne poteva più, ma sopportava di buon grado, pensando ad altro.
“Ma me vói bene, me vói bene?” chiedeva ogni tanto, ansando, giusto per scambiare due chiacchiere e rompere la monotonia.
“Come no, come no... girate, va’!” ribatteva Salvatore, stantuffando su e giù.
“Ma mi ami? mi ami, amo’?”
“Come no.“
“Ma quanto?”
“Tanto, tanto.”
“Ma tanto quanto?”
“Tanto quanto… vie’ qua, peró, piègate un po’... Aaah... tanto come ‘sto pilastro: bèccalo, ch’è tutta salute!”
“Amore, amore...”
Amore oggi, ti amo domani, indigestioni di pene tutte le sere, Arabella aveva passato la sua vita a gambe larghe chè, anche quando non scopava, sfornava un figlioletto dopo l’altro, manco fossero pizzette. E dopo il settimo figlio, era stata sempre la stessa scena che si ripeteva: veniva la sera che serviva a tavola un po’ tremolando, palliduccia e silenziosa, come se avesse qualcosa da nascondere, e il marito veniva colto da una specie di presentimento.
“’Mbe’? Te vedo strana: me devi dì qualcosa o te so’ venute le masturbazioni?”
“Magari me fossero venute.”
“Perchè magari?”
“Perchè voleva dì che non ero rimasta incinta un’altra volta!”
“Mortà cc... ma che, è mio pure questo?” chiedeva ‘Tore, sbattendo un pugno sul tavolo che faceva schizzare la brodaglia fuori dal piatto.
“E di chi vói che sia? Mica m’avrai preso pe’ ‘na zoccola?”
“Che ne so io, il cefà lo me pare che nun te dispiace.”
“Che c’entra? se battevo er marciapiede, a quest’ora mica vivevo dentro ‘na baracca! Chiedi scusa.”
“Pure questo è vero. Comunque, ‘na cosa è certa: se ‘sto pupo è fijo mio, è tutta grazia di Dio! - tagliava corto lui -. Tiralo su tu, peró, chè io c’ho da lavorà e nun c’ho tempo da pèrde.”
“Certo che ce penso io, amo’! Me vói bene, peró? me lo vói, bene?”
“Ooooh... ‘na cifra, Arabe’. Ch’hai pure i dubbi?”
“Ma nun pensi che forse sarebbe arrivato er momento de infilà tte i... preservaf... i cosi... quando che me te ingróppi?”
“I che?”
“I preferva... tibi?”
“Ah, i cosi. Ma là ssa pèrde: ce l’hai un’idea de quanto costano?”
“Lo so, lo so, ma qua due so’ le cose: o te dai ‘na bella calmà ta o ‘sta casa diventa un asilo. Io vójo bene a tutti, ma mica so’ fatta de cemento armato.”
“Ma là ssa pèrde: già devo lavorà come un negro tutto il santo giorno con quelle cacchio de cinture, me posso stà a impazzì pure a letto, co’ quei pene de cosi?” la stroncava Salvatore, che di preservativi proprio non ne voleva sapere, e continuava a fottere come un riccio, vivendo alla giornata. Una sera, peró, Arabella ci riprovó e, al momento giusto, mentre facevano a caccia e metti, sussurró: “Ma te costa proprio tanto?”
“Ma che?”
“Coprìrti er creapopoli?”
“Ancora? Ma chi te l’ha messa in testa, ‘st’’idea bislacca?” protestó il chiavatore, tirando fuori la mazza dalla gnocca della moglie. So’ vent’anni che scopà mo e sèmo stati tanto bene così!”
“Avemo pure fatto do-di-ci ragazzini, peró! Dico: do-di-ci!”
“E chi se ne frega...” ribattè lui, poi prese la mira, si lasció cadere sopra di lei e le affondó di nuovo il pippolone in panza, urlando: “Io vojo scopà , scopà e riscopà ! Se metto al mondo cinquanta fiji, li mantengo tutti e cinquanta co’ ‘ste du’ braccia! Me sfónno de lavoro, hai capito? me sfónno de fatica come te sfónno de pene!”
“Ma almeno... me vói b...” fece per chiedere lei, ma Salvatore le tappó la bocca con una mano.
“Sì, sì... nun me lo ripète trenta volte al giorno, peró: me fai ‘na capoccia così, co’ ‘sta storia...” rilanció, mordicchiandole un orecchio.
“Ma peró tu me vói be...” insistè lei, e allora Salvatore le sferró un manrovescio sulla bocca, facendola sanguinare.
“pene e cazzotti, a voi femmine!” urló.
“Perchè mi meni, mo?”
“Perchè parli troppo: te devi móve de più e parlà de meno! Ti vójo con la fica aperta e la bocca chiusa: lo sai, no?”
In quella, peró, Giannino s’affacció al finestrino della stanzetta.
“A pa’, a ma’... ma che state a fà ?”
“Vaffanculo, Gianni’...” lo bloccó Salvatore, continuando a montare come se niente fosse.
“Va a giocà , cocco de mamma...”
“Me servono i soldi pe’ i videogheims...”
“Mamma te li dà ... dopo, peró, torna dopo.”
“Dopo quando?”
“T’ho detto che devi annà affanculo, me capisci quando te parlo, ragazzi’?” ribadì Euro, e allora il pischello ci rimase male, e filó via.
“Amo’, ma perchè lo tratti così? è er fijètto nostro!”
“Appunto: se deve imparà a èsse un’ómo tosto, che la vita è ‘na sóla pure per lui.”
“Le vói chiùde, poi, le tapparelle, quando che fà mo?”
“Aah... quante storie! Sei la donna mia, tu? E allora... fà tte trapanà ! Giù!”
“Va be’, va be’: ce lo sai che come me vói, me ce metto: basta che te calmi Amo’...” abbozzó Arabella, sistemandosi a novanta gradi.
“E nun te preoccupà de niente, ce penso io a figli. Lavoro pure de notte, se serve... alza un po’ la coscetta... Tie’, sollà zzate co’ sto pescetto!” aggiunse lui, sguazzà ndo nella carne della sua donna, ormai sfatta da mille e una chiavata. In quella, peró, entró Pinella, una delle figliolette.
“A ma’, che me lo dà i, un cinquino?”
“Hai pulito er cucinótto?”
“Tutto quanto, ma’... pare ‘no specchio.”
“Allora aspetta che dopo te lo dó. Mo va a giocà .”
“Ma quando me lo dà i, quando me le dà i?
“Dopo, dopo.”
“Ma dopo quando, se state sempre a scopà ?”
(Fernando Bassoli)
“Aaaah... aaah... bèccate ‘st’asso de bastoni!” sghignazzava, tutto sudato, mentre l’infilzava da par suo. E, dopo anni ed anni, sembrava non essersi ancora stufato. Lei, invece, non ne poteva più, ma sopportava di buon grado, pensando ad altro.
“Ma me vói bene, me vói bene?” chiedeva ogni tanto, ansando, giusto per scambiare due chiacchiere e rompere la monotonia.
“Come no, come no... girate, va’!” ribatteva Salvatore, stantuffando su e giù.
“Ma mi ami? mi ami, amo’?”
“Come no.“
“Ma quanto?”
“Tanto, tanto.”
“Ma tanto quanto?”
“Tanto quanto… vie’ qua, peró, piègate un po’... Aaah... tanto come ‘sto pilastro: bèccalo, ch’è tutta salute!”
“Amore, amore...”
Amore oggi, ti amo domani, indigestioni di pene tutte le sere, Arabella aveva passato la sua vita a gambe larghe chè, anche quando non scopava, sfornava un figlioletto dopo l’altro, manco fossero pizzette. E dopo il settimo figlio, era stata sempre la stessa scena che si ripeteva: veniva la sera che serviva a tavola un po’ tremolando, palliduccia e silenziosa, come se avesse qualcosa da nascondere, e il marito veniva colto da una specie di presentimento.
“’Mbe’? Te vedo strana: me devi dì qualcosa o te so’ venute le masturbazioni?”
“Magari me fossero venute.”
“Perchè magari?”
“Perchè voleva dì che non ero rimasta incinta un’altra volta!”
“Mortà cc... ma che, è mio pure questo?” chiedeva ‘Tore, sbattendo un pugno sul tavolo che faceva schizzare la brodaglia fuori dal piatto.
“E di chi vói che sia? Mica m’avrai preso pe’ ‘na zoccola?”
“Che ne so io, il cefà lo me pare che nun te dispiace.”
“Che c’entra? se battevo er marciapiede, a quest’ora mica vivevo dentro ‘na baracca! Chiedi scusa.”
“Pure questo è vero. Comunque, ‘na cosa è certa: se ‘sto pupo è fijo mio, è tutta grazia di Dio! - tagliava corto lui -. Tiralo su tu, peró, chè io c’ho da lavorà e nun c’ho tempo da pèrde.”
“Certo che ce penso io, amo’! Me vói bene, peró? me lo vói, bene?”
“Ooooh... ‘na cifra, Arabe’. Ch’hai pure i dubbi?”
“Ma nun pensi che forse sarebbe arrivato er momento de infilà tte i... preservaf... i cosi... quando che me te ingróppi?”
“I che?”
“I preferva... tibi?”
“Ah, i cosi. Ma là ssa pèrde: ce l’hai un’idea de quanto costano?”
“Lo so, lo so, ma qua due so’ le cose: o te dai ‘na bella calmà ta o ‘sta casa diventa un asilo. Io vójo bene a tutti, ma mica so’ fatta de cemento armato.”
“Ma là ssa pèrde: già devo lavorà come un negro tutto il santo giorno con quelle cacchio de cinture, me posso stà a impazzì pure a letto, co’ quei pene de cosi?” la stroncava Salvatore, che di preservativi proprio non ne voleva sapere, e continuava a fottere come un riccio, vivendo alla giornata. Una sera, peró, Arabella ci riprovó e, al momento giusto, mentre facevano a caccia e metti, sussurró: “Ma te costa proprio tanto?”
“Ma che?”
“Coprìrti er creapopoli?”
“Ancora? Ma chi te l’ha messa in testa, ‘st’’idea bislacca?” protestó il chiavatore, tirando fuori la mazza dalla gnocca della moglie. So’ vent’anni che scopà mo e sèmo stati tanto bene così!”
“Avemo pure fatto do-di-ci ragazzini, peró! Dico: do-di-ci!”
“E chi se ne frega...” ribattè lui, poi prese la mira, si lasció cadere sopra di lei e le affondó di nuovo il pippolone in panza, urlando: “Io vojo scopà , scopà e riscopà ! Se metto al mondo cinquanta fiji, li mantengo tutti e cinquanta co’ ‘ste du’ braccia! Me sfónno de lavoro, hai capito? me sfónno de fatica come te sfónno de pene!”
“Ma almeno... me vói b...” fece per chiedere lei, ma Salvatore le tappó la bocca con una mano.
“Sì, sì... nun me lo ripète trenta volte al giorno, peró: me fai ‘na capoccia così, co’ ‘sta storia...” rilanció, mordicchiandole un orecchio.
“Ma peró tu me vói be...” insistè lei, e allora Salvatore le sferró un manrovescio sulla bocca, facendola sanguinare.
“pene e cazzotti, a voi femmine!” urló.
“Perchè mi meni, mo?”
“Perchè parli troppo: te devi móve de più e parlà de meno! Ti vójo con la fica aperta e la bocca chiusa: lo sai, no?”
In quella, peró, Giannino s’affacció al finestrino della stanzetta.
“A pa’, a ma’... ma che state a fà ?”
“Vaffanculo, Gianni’...” lo bloccó Salvatore, continuando a montare come se niente fosse.
“Va a giocà , cocco de mamma...”
“Me servono i soldi pe’ i videogheims...”
“Mamma te li dà ... dopo, peró, torna dopo.”
“Dopo quando?”
“T’ho detto che devi annà affanculo, me capisci quando te parlo, ragazzi’?” ribadì Euro, e allora il pischello ci rimase male, e filó via.
“Amo’, ma perchè lo tratti così? è er fijètto nostro!”
“Appunto: se deve imparà a èsse un’ómo tosto, che la vita è ‘na sóla pure per lui.”
“Le vói chiùde, poi, le tapparelle, quando che fà mo?”
“Aah... quante storie! Sei la donna mia, tu? E allora... fà tte trapanà ! Giù!”
“Va be’, va be’: ce lo sai che come me vói, me ce metto: basta che te calmi Amo’...” abbozzó Arabella, sistemandosi a novanta gradi.
“E nun te preoccupà de niente, ce penso io a figli. Lavoro pure de notte, se serve... alza un po’ la coscetta... Tie’, sollà zzate co’ sto pescetto!” aggiunse lui, sguazzà ndo nella carne della sua donna, ormai sfatta da mille e una chiavata. In quella, peró, entró Pinella, una delle figliolette.
“A ma’, che me lo dà i, un cinquino?”
“Hai pulito er cucinótto?”
“Tutto quanto, ma’... pare ‘no specchio.”
“Allora aspetta che dopo te lo dó. Mo va a giocà .”
“Ma quando me lo dà i, quando me le dà i?
“Dopo, dopo.”
“Ma dopo quando, se state sempre a scopà ?”
(Fernando Bassoli)