HB ha scritto:io direi che è tempo di arieggiare almeno la stanza in alto, l'ultima, Mongo.
amico, ci sono ancora le scalfiture dei denti di Uta, sul tavolo.
ragazza folle, piedi minuscoli laccati e denti appuntiti come quelli di Stephen Hawking.
è la prima cosa che abbiamo deciso si fare insieme, se ricordi, farle estirpare quel cazzo di denti da formica vampira e rimetterli nuovi, belli, scelti da noi uno ad uno.
comunque sia, l'abbiamo amata, e amare in due la stessa donna e non odiarsi né sentire il bisogno di ciucciarsi l'uccello a vicenda è segno di grande amicizia.
me lo ricordo bene il gioco della morsa, Mongo.
ci ha tirati quasi pazzi, Uta.
funzionava così: buio completo nella stanza, le pale sul soffitto a girare e quella cazzo di carta moschicida pendula che ci sbatteva sulla fronte come la lingua di un mostro invisibile.
Uta stava con la bocca aperta e i denti - sopra e sotto - a mordere il bordo del piano della scrivania.
non importachi di noi due entrasse nella stanza o chi le entrasse dentro, né che fosse la figa o il culo, era Uta.
"non mi staccherò mai da voi ragazzi" diceva la sera quando il locale era chiuso e noi eravamo parte dell'ombra, cazzo, eravamo proprio l'ombra e non serviva dirci nulla, sapevamo che questo locale era la fase avanzata della condivisione della capanna sull'albero, amico mio.
ci abbiamo investito tempo e follia, in questo posto.
Uta, dicevo, aspettava che HB-Mongo - entità unica, fratelli di sangue e un giorno diremo come - entrasse nella stanza e le poggiasse le mani sui fianchi, le susurrasse "hanf" e le scivolasse così dentro da sentrire una gabbia di uccelli ubriachi goglotatre tutti insieme, in quella sanza di mosche morte e appiccicate e di divani di pelle e libri, mio dio, milioni di libri stipati ovunque, le sinapsi comuni mie e tue, fratello, farfalle nere silenziose in quel turbinio di cipcip come di moog.
poi Uta stringeva i denti e li conficcava nel legno, forte ma senza violenza né fame, un obliterare la scrivania e rimanervi ancorata con le mandibole serrate, una tagliola di piccoli denti rubati a destra e a manca ficcati nelle profondità del ripiano.
avevi voglia, di sbatterla e tentare di strapparla via e pressartela sul petto, di tirarle i capelli perché la nuca le scattasse indietro verso i nostri nasi, provare la sensazione di strapparla ad un buio che non ci apparteneva perché trascendava quello della stanza, era un buio tutto suo.
"io di qui non me ne andrò mai" bofonchiava con la bocca piena di schegge "io sono vostra sono un'edera una radice che stritola e non abbandona".
che fossi io o tu, fratello, cambiava poco.
quanto tempo è che non mettiamo piede qui, Mongo?
io e tu sappiamo perché.
io e tu sappiamo la malinconia che ci si scioglie dentro come uno sputo di tossico, i visini fighini di utenti nuovi iperaccessoriati col cazzo connesso notte e giorno allo smartphone, Superzeta come giostra alternativa a cannetta apericena volvo disco cha cha cha.
quanto tempo è che non saliamo qui all'ultimo piano, fratello Mongo?
il giorno che Uta un embolo l'ha trasformata in un corpicino dai piedini piccoli e laccati gli occhi come palloncini esplosi rivolti in alto a fissare le mosche stecchite girellare con le pale, è stata l'ultima volta che abbiamo acceso la luce.
se tu vuoi, se sali con me, ti va di contare quelle striature solchi sbrecciature graffi spaccature di dentini tutti diversi l'uno dall'altro, lì sul legno di quel cazzo di scrivania?
aspetto una pietra leggera contro il vetro della mia finestra, fratello.
HB
hai ragione, fratello.
saranno 10 anni il mese
prossimo.
stavamo con questa puttana, Uta
che aveva 3 anni più di noi e un rapporto
con la madre del tipo
chi ucciderà prima chi
dove le minaccie urlate si mescolavano alla
violenza fisica, un ambiente da trincea dalla sera
alla mattina, l'unica tregua era di notte quando
scopavamo nel suo letto (della figlia, non della madre)
e quelle sere in cui uscivamo, lei tutta tirata e noi
gli stessi di sempre, quando ci chiudevamo quassù a
bere fino all'ora di chiusura, quasi senza parlare se non di
cose che interessavano a lei molto più di quanto potessero
esistere per noi, e qui nel locale c'erano uomini che
se l'erano scopata (molti) e altri che cercavano
di farlo (abbastanza) e altri ancora che
avrebbero voluto (i pochi rimasti)
e tra questi
molti ancora vergini che non perdevano
occasione per rivolgerle la parola parlandole di
cose che interessavano a loro molto più di quanto potesse
capire lei, perché in fondo se dico che era una
puttana, non lo dico per cattiveria o tanto per dire ma perché
la sera che l'abbiamo conosciuta lei e una sua amica ci avevano
letteralmente trascinato quassù all'ultimo piano dove mezz'ora dopo l'amica era
sparita e lei seduta a turno sul nostro uccello ad infilarci la lingua in bocca,
così vedi, non sto affatto esagerando come magari avresti creduto,
e di tutte le cose che ricordo, ce n'è una che batte
tutte le altre:
la libreria davanti al suo letto, nella stanzetta qui a fianco,
quella piccola serie di mensole attaccate
al muro, che mi capitava di fissare anche senza volerlo mentre la
pompavo di notte, e nella semi oscurità vedevo i dorsi di quei
4 libri e il vaso di una pianta artificiale, anche se della pianta
non mi fregava niente, però quei 4 libri (tre dei quali universitari),
quelli non so perché non me li sono più tolti dalla mente,
quei 4 libri si sono stampati nella mia memoria più delle scopate e delle
inculate e dei pompini e delle tette grosse e delle splendide gambe e insomma
di tutto il meglio che poteva offrirci.
c'ho pensato spesso a questa cosa, specie dopo quello che l'è capitato:
si è fatta scopare da una
moltitudine di uomini
e intanto la sua
piccola libreria rimaneva
vuota.
avrebbe potuto riempirla di
magnifici scrittori.
quegli uomini sì che le sarebbero
serviti a qualcosa.
apri pure la finestra, fratello.
accarezza la superficie del tavolo.
può sembrare presto, ma comincio a versare da bere...