porno e hiv un'inchiesta
Inviato: 12/05/2004, 13:05
Mi sembra un articolo utile alla discussione.
Stefano Pistolini per Il Foglio
Ultimo tango a Pornoland. Questa storia sembra un film di PT Anderson, se
solo, profeticamente e romanticamente, non l'avesse già fatto - ricordate
"Boogie Nights"? Tutto vero e al tempo stesso un po' irreale, come in
tante vicende che accadono nei dintorni di Hollywood, alle propaggini del
mondo dello spettacolo che s'impadronisce d'anime e corpi e li restituisce
diversi e svuotati.
E' una storia che nasce da scarne notizie di cronaca, in due parole
sintetizzabile così: il mondo dei porno californiano, industria che inonda
il mercato di filmini a luci rosse, dopo anni di miracolosa esenzione
dagli effetti della peste contemporanea, è ora al centro di un'epidemia di
sieropositività , evento capace di distruggerla, rappresentando la sua
nemesi, in un certo senso la sua negazione, in una dimensione che - se
pure si vuole essere amorali - ne sancisce l'inattualità .
Comunque, per tratteggiare decentemente la storia in questione, dobbiamo
mentalmente spostarci a nord dell'aeroporto Lax, dove sempre
immaginariamente siamo atterrati, affittando una macchina e guidando per
una trentina di chilometri verso nordest fino a Burbank, nel cuore della
San Fernando Valley, un posto nel quale, perlappunto, la maggioranza dei
cittadini - permanenti o provvisori - sbarca il lunario dandosi da fare
nelle pieghe dello show business.
Certo, qui mica vivono i divi, è solo un sobborgo dall'aria tranquilla e
un po' tetra, più lontano dal Pacifico e senza la gioviale atmosfera
d'eccezionalità e d'eterna vacanza che si respira più giù, da Beverly
Hills fino a Santa Monica. La Valley, insomma, è un posto meno attraente,
più duro, pervaso da quell'ansia d'insicurezza che in quest'angolo di
California è sentimento comune: o la va o la spacca, vinci o muori, o
trovo un lavoro entro stasera o faccio la valigia e cambio aria.
Non c'è glamour nelle strade ordinate di Burbank o di Glen Oaks, anche se
le ambizioni e i desideri si percepiscono ben vivi anche qui, sotto la
pelle abbronzata dei tanti solitari che fanno acquisti nei drugstore
sempre aperti. La Valley è un'angusta anticamera per le delizie di West
Hollywood, ammesso s'arrivi mai ad assaporarle. Qui, non a caso, per i
prezzi più accessibili, l'operosità e la privacy a disposizione di tutti,
ha le basi una delle industrie più redditizie dello showbiz americano: il
porno.
La San Fernando Valley è il laboratorio dove agisce il comparto
dell'intrattenimento per adulti nel quale lavorano stabilmente seimila
persone - tra cui 1200 attori e attrici - realizzando undicimila film
pornografici suddivisi in infinite sottocategorie, capaci di fruttare
qualcosa come dieci miliardi di dollari l'anno, con una diffusione
capillare non solo in tutti gli Stati Uniti, ma presso tutti gli
appassionati del pianeta, che sanno ben distinguere un serio prodotto
californiano dalle proposte d'assalto che cercano di guadagnarsi qualche
spicchio di mercato, roba spregiudicata e improvvisata proveniente dal Sud
America e dall'Europa dell'Est. A Los Angeles una diva del porno - le
ragazze sono le più pagate del set, sono loro ad attirare i consumatori e
a trascinare le vendite, coi maschi ridotti a strumenti fissi della
messinscena - guadagna fino a cinquemila dollari al giorno per le sue
prestazioni, anche se la maggioranza si ferma a quotazioni inferiori,
mille dollari di media, ma anche solo trecento per un'esordiente alle
prime armi.
Se si va a lavorare all'estero, questi budget - che costituiscono la
principale voce di spesa nella produzione dei porno - si possono ridurre
di nove decimi. Motivo per cui l'industria hard può resistere a L.A. solo
in base alla qualità dei suoi prodotti e soprattutto alle garanzie di
sicurezza che offre a chi prova a lavorarci, sopportando le spese per un
affitto californiano, gli spostamenti e l'assistenza medica.
Uno dei fiori all'occhiello del business losangelino a luci rosse si
chiama Aim, Adult Industry Medical Health Care Foundation, organizzazione
privata di autocontrollo, monitoraggio e assistenza medica nata e
finanziata all'interno della stessa industria del porno californiana. E'
uno strumento di garanzia collettivo, un fatto di dignità e forse anche
una scorciatoia per la sopravvivenza.
Ebbene, un paio di settimane fa è stata proprio l'Aim, in una conferenza
stampa-choc, a richiedere l'immediato stop di almeno due mesi di tutte le
lavorazioni di film porno in via di realizzazione, per sottoporre a test
di sieropositività le circa settanta persone che - attraverso la
trasmissione progressiva - nelle ultime settimane abbiano avuto rapporti
sessuali con Darren James, Lara Roxx e Jessica Dee, tre professionisti
classificati rispettivamente come grado-1 (James) e grado-2 (Roxx e Dee)
di quella che minaccia d'essere una vera epidemia di contagio- Hiv.
In sostanza si tenta di chiudere, prima che sia tardi, un reticolato di
protezione attorno all'epidemia. entro al recinto ci sono il portatore
originario del virus, James, e coloro che, direttamente o indirettamente,
siano a lui connessi da rapporti sessuali avvenuti da metà marzo a oggi:
un'impresa non facile, nell'industria del porno. Dove, peraltro, la
regolamentazione dei test Hiv per tutti gli attori attivi nelle
produzioni, risale al '98, in coincidenza con l'ultima epidemia
certificata, quella che tra le vittime fece il celebre nerboruto Tony
Montana, tra i più amati divi del porno di L.A. Tony era un tipo a sé, un
latino tutt'altro che bello, secondo le categorie nostrane addirittura un
"coatto" irruento, simpatico e superdotato, adorato dal pubblico maschile
per il suo machismo burino, assurdo e casinaro, in assoluta
contrapposizione col porno patinato e "flou" che a lungo ha regnato sui
set di Burbank, nel vecchio solco stilistico di "Playboy".
Se comunque il test mensile oggi è parte integrante del severo galateo
comportamentale dei professionisti del porno a L.A., lo stesso non si può
dire per l'utilizzo dei preservativi. Per quanto le due case di produzione
più importanti del settore, Vivid e Wicked, abbiano da anni optato per una
politica condom-only, presentando nei loro video - qualsiasi sia la
pratica sessuale in atto - rapporti nei quali vengono sempre utilizzati
profilattici, il sottogenere porno che nelle ultime stagioni ha preso il
sopravvento è quello etichettato "gonzo", a base di storie "verité", con
accoppiamenti e varie promiscuità sessuali spacciate per occasionali,
"rubate" dalle telecamere in modo che il voyeur possa illudersi che siano
a portata di mano anche per lui, uomo qualunque della strada.
E i video "gonzo" - rompendo quello che nella società americana è ormai un
tabù a tutti gli effetti - non prevedono l'uso del preservativo,
("uccidono la fantasia" è il motto), privilegiando invece la
rappresentazione di rapporti concitati, dove l'eccitazione, il "calore"
("heat", parametro di gradimento assoluto di un pornovideo "gonzo") sia
credibile e condivisibile. "A questo punto diventa tutta una questione di
onestà tra gli attori che lavorano nei film", spiega Seymore Butts, re del
"gonzo". "Si recita senza preservativi e solo una diva di primo piano può
imporre l'utilizzo del condom nei rapporti che la coinvolgono. Gli altri
s'assoggettano di buon grado alla regola e l'unica abitudine che tutti
condividono è quella di farsi il test una volta ogni quattro settimane e
di mostrarsi reciprocamente il certificato di negatività prima di
spogliarsi".
Ogni anno davanti alle telecamere della San Fernando Valley si svolgono 50
mila rapporti sessuali, perlopiù multipli. "Se si pensa che dal 1989 a
oggi il totale è di 750 mila rapporti sessuali, che i casi di Hiv siano
solo una dozzina è un risultato eccezionale, sicuramente migliore delle
medie nazionali", conclude Butts. E comunque è questione di "onestà ",
parola che ricorre spesso nella Valley. Perché, a pensarci, l'unico modo
in cui questa comunità potrebbe sopravvivere senza angoscia sarebbe
trasformandosi in una setta chiusa, impermeabile ai rapporti con
l'esterno: 1.200 attori che facciano instancabilmente sesso tra loro
davanti alle troupe che li riprendono, con la certezza d'essere tutti sani
e perciò utilizzabili per le esibizioni più spericolate.
Il problema è che le cose non vanno così: ai performer fissi s'aggiungono
una gran quantità di "toccata e fuga", persone che per raccattare un po'
di soldi veloci partecipano a qualche film, magari solo per una settimana
o due. Poi ci sono i rapporti sessuali che gli attori della Valley
intrattengono nella loro vita privata, con partner magari più a rischio e
meno controllati di loro. E infine c'è il pericolo che, secondo le
cronache di questi giorni, s'è rivelato fatale: gli ingaggi all'estero,
sui set di Rio, Caracas o Budapest, come star d'eccezione di produzioni
porno più approssimative, nelle quali sono ben diversi i controlli
sanitari e le precauzioni sul set.
Del resto l'industria del porno non va per il sottile: girare nella San
Fernando Valley, con quell'atmosfera di regolamentazione che fa tanto
Hollywood, costa caro, più di quanto siano disposti a spendere gli ultimi
avventurieri del settore. Si va in location più economiche, e poi, magari,
per dare al prodotto una verniciata californiana s'ingaggia un attore o
un'attrice di L.A.. Alla fine il guaio è successo e ora l'ambiente
reagisce alla notizia con gran preoccupazione. Il porno resta un mondo
effimero e insicuro.
Il castello di carte si può dissolvere in pochi giorni. Basti dire che i
consumatori di video hard sono abituati a un flusso costante di novità e
di nuove proposte. Per orientarsi nelle scelte di solito s'affidano ai
marchi di produzione: ciascuno sceglie a proprio gusto i film d'una casa o
l'altra, ben sapendo come siano contraddistinti da un'ossessiva
ripetitività della rappresentazione.
Da un titolo all'altro cambia pochissimo, almeno all'occhio non troppo
maniacale. Le ambientazioni sono sempre le stesse, quelle sterilizzate
dell'anonimato postmoderno della Valley. Le situazioni sono improntate a
uno sbrigativo minimalismo che fa tanto "stress della vita moderna". Poi
si scopa, e se il film è fatto bene tutto sembra un po' credibile e perciò
arriva il plusvalore dell'eccitazione.
Ma un film di norma lo si guarda una volta sola, poi si passa al prossimo.
Ogni giorno ne arrivano dozzine sugli scaffali dei videoclub. E se il
flusso s'interrompe, come capita adesso, i consumatori presto si
rivolgeranno altrove, ad altre produzioni, magari europee, latine,
asiatiche. Per il porno classico di L.A., che tira avanti gloriosamente da
oltre trent'anni - proprio dai giorni roventi alla "Boogie Nights" - può
essere la bancarotta. Le case di produzione chiuderebbero, spedendo a casa
impiegati, tecnici e soprattutto attori, costretti a fare fagotto nella
speranza di sbarcare il lunario in un'altra capitale del porno. Sarebbe
uno choc culturale - o perlomeno "sottoculturale" - perché non c'è un
altro luogo dove questa industria abbia saputo edificare una mentalità
altrettanto professionale accoppiato a un lifestyle relativamente
potabile.
Perciò, sostengono gli operatori dell'Aim, bisogna correre ai ripari e
bisogna farlo subito e in profondità . "Le telecamere resteranno spente
fino all'8 giugno" dice Jill Kelly, che produce sei pellicole porno al
mese. "Ce ne staremo tutti lì preoccupati e seduti in circolo ad aspettare
l'arrivo dei risultati dei test. Perché la priorità è la sicurezza. Prima
dei soldi. Ma se sfumano i quattrini, se non si lavora più, anche la
sicurezza andrà a farsi benedire". Perché, come sempre accade, nei
dintorni del falò si aggirano i cowboys, quelli che se ne fregano, quelli
che per soldi rischiano, senza remore nel mettere a repentaglio la pelle,
soprattutto se è quella degli altri, magari di qualche giovane attrice o
di qualche volitivo stallone appena arrivati in città e assetati di
"azione". Continueranno a girare, lo faranno in clandestinità per non
incorrere nel boicottaggio dell'ambiente, a caccia nicchie di mercato
finora loro recluse. E i rischi aumenteranno in modo esponenziale.
Per non parlare del vecchio braccio di ferro tra l'industria dell'hard e
gli emissari del governo, tanto più quando si profila un appuntamento
elettorale per la Casa Bianca e di colpo la salute morale della nazione
torna a fare capolino nelle agende di chi vuole assicurarsi una bella
poltrona. Dopo la notizia sul contagio dei porno-attori, il dipartimento
di giustizia ha già messo sotto inchiesta 49 delle 57 case di produzione
della Valley. "La strategia è affamarci, paralizzandoci. Se ci fermiano,
se trovano il modo di mettere sotto tutela il nostro lavoro, saremo
costretti a chiudere bottega, che è esattamente ciò che pretendono i
leader dell'integralismo religioso. Peccato che non arrivino a capire che
questo non significherà certo la fine del porno, ma solo lo smantellamento
di un'industria che ha cercato di dare una dignità a questo lavoro".
Certo, non che i pornoattori ("talent" li chiamano laggiù) possano contare
su alcuna forma di rappresentanza collettiva. A parlare a nome di tutti è
la solita l'Aim, l'associazione salvavita di queste macchine del sesso. E
il cuore pulsante dell'Aim ha un nome: Sharon Mitchell, 43 anni, ex
attrice porno, sedici anni di tossicodipendenza da eroina e una vita
rovinata dall'herpes e da una pletora di malattie sessuali cronicizzate.
Oggi la chiamano "la zia del porno" e col suo lavoro di prevenzione,
informazione e certificazione salva la vita a dozzine di ragazzi e ragazze
che assaporano il momento ruggente sui set della San Fernando Valley.
"Questa è gente a cui piace infrangere le regole e vivere a doppia
velocità ", racconta il produttore Dave Pounder "e per noi Sharon ormai è
la Madre Teresa che ci tiene lontani dai guai". Nei laboratori Aim di
Sherman Oaks, interamente finanziati dai professionisti del porno che si
autotassano affinché la struttura resti operativa, dal '98 a oggi si sono
svolti ottantamila test anti-HIV con soli undici casi certificati. Ma
Sharon adesso pudicamente avvolta in un camice da medico, è molto
preoccupata: "I miei erano i tempi della rivoluzione sessuale. Ora è
diverso, e con tutte le forze cerco di far capire a questo branco di
scalmanati che l'Aids per loro è un vero rischio professionale, non una
remota opportunità legata solo alla sfiga. Ma è difficile tenerli
concentrati sul problema. Pensano soltanto ai quattrini e al modo di farne
tanti nel minor tempo possibile".
Eppure a cascarci è stata una vecchia volpe. Darren James è un
professionista affermato del porno della Valley, un veterano in
circolazione da sei anni, un nero con la faccia da comico e naturalmente
con attributi degni di nota. Nello scorso marzo accetta un ingaggio per un
film hard in Brasile, un misto di vacanza e lavoro mentre a Rio ancora
risuonano gli echi del carnevale. Sul set trova di tutto: dai travestiti,
nell'ambiente visti come i più a rischio-Aids, alla bellissima Bianca
Biaggi, superstar del porno made in Brazil.
Secondo la ricostruzione degli eventi, Bianca, ora anch'essa sieropositiva
alle analisi, avrebbe contratto il virus dai travestiti e l'avrebbe
trasmesso a Darren. In ogni caso, una volta rientrato a L.A., James si
sottopone agli esami di routine, ricevendone in cambio un verdetto
inappellabile: Hiv positive, certificato dal Pcrdna il cosiddetto
"supertest" anti-Aids per affidabilità , rapidità del responso e capacità
d'intercettare il virus appena contratto. I guai stanno proprio in
quest'ultimo parametro, perché è nella famigerata "finestra a rischio",
ovvero nelle settimane che trascorrono tra il contagio e la sua
certificazione, che James, riprendendo a lavorare nella Valley, ha
intrattenuto davanti alle telecamere rapporti sessuali con 12 ragazze. E
costoro, a loro volta, hanno avuto rapporti sessuali con un incerto totale
di una settantina di attori, senza contare i partner nella vita privata.
Così, appena arrivano i risultati del test di James, scatta l'allarme.
Cominciano i controlli dei "sospetti": qualcuno tira un sospiro di
sollievo quando i risultati sono negativi, ma la prima a disperarsi ha il
nome d'arte di Lara Roxx, una canadese arrivata solo nel febbraio scorso a
L.A., col progetto di fermarsi giusto il tempo di mettere insieme i soldi
per tornare a casa e aprire un negozio. A vederla nelle foto, Lara ha più
il physique du rà´le della ragazza irrequieta che le misure esplosive della
pornodiva. Magrolina, senza un goccio di silicone, bella faccia pulita e
capelli neri cosparsi di ciocche rosa da punkette: "E' stato il tizio che
ho preso come manager a telefonarmi per avvertirmi del guaio che era
appena successo. Anche lui, del resto, lo conosco poco, solo da quando mi
sono presentata nel suo ufficio a chiedergli un ingaggio nella Valley,
anche se non mi sentivo proprio pronta a tutto dal punto di vista
sessuale".
Fino a quel momento Lara aveva lavorato solo per un sito internet
canadese, di quelli che offrono a pagamento scene di sesso dal vivo via
webcam. Ma una volta a Burbank, Lara scopre che per una principiante come
lei le regole sono particolarmente ruvide. Sul set dove incontra Darren
James, deve fare i conti con tre stalloni che di lei fanno praticamente
polpette: "La stessa sera m'è venuto uno spaventoso sfogo sulle natiche e
poi un'infiammazione vaginale. Ho cominciato a girare per cliniche dove
trovavo solo medici che per paura di visitarmi non mi facevano neppure
spogliare, mi prescrivevano tonnellate d'antibiotici e mi spedivano a
casa. Per fortuna alla fine sono approdata all'Aim. Anche se qui
m'aspettava la sorpresa peggiore: il risultato del test-Hiv". Lara è
disperata.
In un'intervista a un sito internet che fa da bollettino industriale al
porno di L.A., dice di sentirsi tradita perché le avevano assicurato che
la scelta di lavorare qui la metteva al riparo dai rischi, mentre invece
il sistema ha dimostrato d'essere tutt'altro che a prova d'errore:
"L'avessi saputo prima, non avrei mai accettato di girare senza
preservativi". Racconta d'essersi intimidita su quei set dove chiedere i
certificati ai partner è consentito, ma dove l'anzianità di servizio
genera gerarchie non scritte: "Pensavo che nel porno di L.A. ci fosse
gente a posto di cui potersi fidare. Ero un po' imbarazzata, ma
tranquilla. E mi sono fatta fregare". Adesso ha finito i soldi, non sa
cosa sarà del suo futuro, sogna di frequentare un corso di cinema
all'Ucla, ma i quattrini per l'iscrizione chissà dove li pescherà .
E' andata meglio a Jessica Dee, la seconda a essere incappata nel contagio
provocato da James. Jessica ha 26 anni e, a dispetto del nome, viene dalla
Repubblica Ceca. Alla notizia della sieropositività ha reagito in modo
composto, come se facesse parte della scommessa cui ha affidato la propria
vita. Il suo atteggiamento è piaciuto a Jewel De' Nile, titolare della
Platinum X, la casa di produzione hard per cui Jessica ha lavorato spesso:
"Le ho offerto di occuparsi della regia dei nostri futuri film.
Approfitterò del periodo di stop per insegnarle i fondamentali, sia
tecnici che di gestione del budget, perché in questo ambiente il regista
s'occupa di tutto ciò che riguarda la produzione di un film. Ho fiducia in
Jessica: di fronte alla sventura s'è comportata con classe e ho deciso di
aiutarla".
Passano i giorni, continua il conto alla rovescia del contagio, arrivano i
risultati degli esami. Tutti tengono d'occhio il computer, perché
l'ambiente è strettamente connesso online e le informazioni circolano in
tempo reale: "Si cerca Francesca Sin, che ha fatto sesso orale con Darren"
dice il messaggio sull'home page di un sito d'informazione del porno nella
Valley. Pare che qualche casa di produzione, per non mandare a casa tutti,
pensi di girare presto qualche video lesbo con sole ragazze, a
limitatissimo rischio di contagio. In questi giorni s'è fatto vivo anche
Larry Flynt, il fondatore di Hustler, provocatore nazionale, titolare di
un film biografico firmato Milos Forman, nonché recente candidato al
governatorato della California, con un programma tutto basato sulle
libertà sessuali.
La casa di produzione di Flynt oggi è uno dei grossi calibri del porno
nella Valley, con 500 titoli immessi sul mercato ogni anno. E lui cerca di
tranquillizzare l'ambiente: "Non bisogna alimentare la notizia che
l'industria a luci rosse in California oggi sia gestita da criminali o da
un manipolo di pervertiti. Qui si realizza un fatturato paragonabile a
quello della General Electric e lo si fa lavorando bene e secondo le
regole". Flynt spiega che i controlli sanitari sono efficaci, ben fatti e
affidabili. Che i risultati dei test sono trasparenti e che le autorità
dovrebbero evitare di eccitare le paranoie, dal momento che è più facile
prendere il contagio dalla vicina di casa che da un'attrice porno. Che la
quarantena cui sono sottoposti gli attori a rischio sarà attentamente
valutata e che i relativi risultati saranno resi pubblici. E che infine
anche lui si schiera contro l'introduzione obbligatoria dei preservativi
nei film porno. Per un motivo semplice: i film nei quali circolano
preservativi semplicemente non vendono.
Motivo per cui le produzioni tenderebbero a spostarsi altrove, fuori dello
Stato della California o, se necessario all'estero, per non dover
sottostare a un'eventuale legislazione in questo senso. Così si
sgretolerebbe la rete di autocontrollo che ha garantito la sana
sopravvivenza del settore fino a oggi, e i contagi Hiv aumenterebbero
sicuramente a dismisura.
Dubbi e incertezze si disseminano nell'inconsueta calura di una bollente
primavera californiana che sembra estate piena. La gente del micromondo
del porno attende con ansia. Fanno rabbia e tenerezza, con quella loro
attitudine tutta spalmata sul credo "Qui siamo in America, anzi in
California. Le cose le facciamo meglio di tutti perché questa è la terra
consacrata dello spettacolo e del business". E' l'ennesima
rappresentazione di una percezione di privilegio e di uno stato mentale
che si sente assediato dalle invidie di chi rimane fuori dal Paradiso. Del
resto anche questa è Hollywood, fragile, avida e carnale. Come sempre
condannata alla regola che lo spettacolo deve andare avanti, altrimenti
tutti tornano a casa, il sogno s'infrange, le luci si spengono. Perché "Mi
guardi e dunque sono" resta l'unico comandamento che conta su questo
palcoscenico dei desideri, di cui gli hooligans sessuali della Valle non
son altro che il pendant effimero e arrazzato.
Stefano Pistolini per Il Foglio
Ultimo tango a Pornoland. Questa storia sembra un film di PT Anderson, se
solo, profeticamente e romanticamente, non l'avesse già fatto - ricordate
"Boogie Nights"? Tutto vero e al tempo stesso un po' irreale, come in
tante vicende che accadono nei dintorni di Hollywood, alle propaggini del
mondo dello spettacolo che s'impadronisce d'anime e corpi e li restituisce
diversi e svuotati.
E' una storia che nasce da scarne notizie di cronaca, in due parole
sintetizzabile così: il mondo dei porno californiano, industria che inonda
il mercato di filmini a luci rosse, dopo anni di miracolosa esenzione
dagli effetti della peste contemporanea, è ora al centro di un'epidemia di
sieropositività , evento capace di distruggerla, rappresentando la sua
nemesi, in un certo senso la sua negazione, in una dimensione che - se
pure si vuole essere amorali - ne sancisce l'inattualità .
Comunque, per tratteggiare decentemente la storia in questione, dobbiamo
mentalmente spostarci a nord dell'aeroporto Lax, dove sempre
immaginariamente siamo atterrati, affittando una macchina e guidando per
una trentina di chilometri verso nordest fino a Burbank, nel cuore della
San Fernando Valley, un posto nel quale, perlappunto, la maggioranza dei
cittadini - permanenti o provvisori - sbarca il lunario dandosi da fare
nelle pieghe dello show business.
Certo, qui mica vivono i divi, è solo un sobborgo dall'aria tranquilla e
un po' tetra, più lontano dal Pacifico e senza la gioviale atmosfera
d'eccezionalità e d'eterna vacanza che si respira più giù, da Beverly
Hills fino a Santa Monica. La Valley, insomma, è un posto meno attraente,
più duro, pervaso da quell'ansia d'insicurezza che in quest'angolo di
California è sentimento comune: o la va o la spacca, vinci o muori, o
trovo un lavoro entro stasera o faccio la valigia e cambio aria.
Non c'è glamour nelle strade ordinate di Burbank o di Glen Oaks, anche se
le ambizioni e i desideri si percepiscono ben vivi anche qui, sotto la
pelle abbronzata dei tanti solitari che fanno acquisti nei drugstore
sempre aperti. La Valley è un'angusta anticamera per le delizie di West
Hollywood, ammesso s'arrivi mai ad assaporarle. Qui, non a caso, per i
prezzi più accessibili, l'operosità e la privacy a disposizione di tutti,
ha le basi una delle industrie più redditizie dello showbiz americano: il
porno.
La San Fernando Valley è il laboratorio dove agisce il comparto
dell'intrattenimento per adulti nel quale lavorano stabilmente seimila
persone - tra cui 1200 attori e attrici - realizzando undicimila film
pornografici suddivisi in infinite sottocategorie, capaci di fruttare
qualcosa come dieci miliardi di dollari l'anno, con una diffusione
capillare non solo in tutti gli Stati Uniti, ma presso tutti gli
appassionati del pianeta, che sanno ben distinguere un serio prodotto
californiano dalle proposte d'assalto che cercano di guadagnarsi qualche
spicchio di mercato, roba spregiudicata e improvvisata proveniente dal Sud
America e dall'Europa dell'Est. A Los Angeles una diva del porno - le
ragazze sono le più pagate del set, sono loro ad attirare i consumatori e
a trascinare le vendite, coi maschi ridotti a strumenti fissi della
messinscena - guadagna fino a cinquemila dollari al giorno per le sue
prestazioni, anche se la maggioranza si ferma a quotazioni inferiori,
mille dollari di media, ma anche solo trecento per un'esordiente alle
prime armi.
Se si va a lavorare all'estero, questi budget - che costituiscono la
principale voce di spesa nella produzione dei porno - si possono ridurre
di nove decimi. Motivo per cui l'industria hard può resistere a L.A. solo
in base alla qualità dei suoi prodotti e soprattutto alle garanzie di
sicurezza che offre a chi prova a lavorarci, sopportando le spese per un
affitto californiano, gli spostamenti e l'assistenza medica.
Uno dei fiori all'occhiello del business losangelino a luci rosse si
chiama Aim, Adult Industry Medical Health Care Foundation, organizzazione
privata di autocontrollo, monitoraggio e assistenza medica nata e
finanziata all'interno della stessa industria del porno californiana. E'
uno strumento di garanzia collettivo, un fatto di dignità e forse anche
una scorciatoia per la sopravvivenza.
Ebbene, un paio di settimane fa è stata proprio l'Aim, in una conferenza
stampa-choc, a richiedere l'immediato stop di almeno due mesi di tutte le
lavorazioni di film porno in via di realizzazione, per sottoporre a test
di sieropositività le circa settanta persone che - attraverso la
trasmissione progressiva - nelle ultime settimane abbiano avuto rapporti
sessuali con Darren James, Lara Roxx e Jessica Dee, tre professionisti
classificati rispettivamente come grado-1 (James) e grado-2 (Roxx e Dee)
di quella che minaccia d'essere una vera epidemia di contagio- Hiv.
In sostanza si tenta di chiudere, prima che sia tardi, un reticolato di
protezione attorno all'epidemia. entro al recinto ci sono il portatore
originario del virus, James, e coloro che, direttamente o indirettamente,
siano a lui connessi da rapporti sessuali avvenuti da metà marzo a oggi:
un'impresa non facile, nell'industria del porno. Dove, peraltro, la
regolamentazione dei test Hiv per tutti gli attori attivi nelle
produzioni, risale al '98, in coincidenza con l'ultima epidemia
certificata, quella che tra le vittime fece il celebre nerboruto Tony
Montana, tra i più amati divi del porno di L.A. Tony era un tipo a sé, un
latino tutt'altro che bello, secondo le categorie nostrane addirittura un
"coatto" irruento, simpatico e superdotato, adorato dal pubblico maschile
per il suo machismo burino, assurdo e casinaro, in assoluta
contrapposizione col porno patinato e "flou" che a lungo ha regnato sui
set di Burbank, nel vecchio solco stilistico di "Playboy".
Se comunque il test mensile oggi è parte integrante del severo galateo
comportamentale dei professionisti del porno a L.A., lo stesso non si può
dire per l'utilizzo dei preservativi. Per quanto le due case di produzione
più importanti del settore, Vivid e Wicked, abbiano da anni optato per una
politica condom-only, presentando nei loro video - qualsiasi sia la
pratica sessuale in atto - rapporti nei quali vengono sempre utilizzati
profilattici, il sottogenere porno che nelle ultime stagioni ha preso il
sopravvento è quello etichettato "gonzo", a base di storie "verité", con
accoppiamenti e varie promiscuità sessuali spacciate per occasionali,
"rubate" dalle telecamere in modo che il voyeur possa illudersi che siano
a portata di mano anche per lui, uomo qualunque della strada.
E i video "gonzo" - rompendo quello che nella società americana è ormai un
tabù a tutti gli effetti - non prevedono l'uso del preservativo,
("uccidono la fantasia" è il motto), privilegiando invece la
rappresentazione di rapporti concitati, dove l'eccitazione, il "calore"
("heat", parametro di gradimento assoluto di un pornovideo "gonzo") sia
credibile e condivisibile. "A questo punto diventa tutta una questione di
onestà tra gli attori che lavorano nei film", spiega Seymore Butts, re del
"gonzo". "Si recita senza preservativi e solo una diva di primo piano può
imporre l'utilizzo del condom nei rapporti che la coinvolgono. Gli altri
s'assoggettano di buon grado alla regola e l'unica abitudine che tutti
condividono è quella di farsi il test una volta ogni quattro settimane e
di mostrarsi reciprocamente il certificato di negatività prima di
spogliarsi".
Ogni anno davanti alle telecamere della San Fernando Valley si svolgono 50
mila rapporti sessuali, perlopiù multipli. "Se si pensa che dal 1989 a
oggi il totale è di 750 mila rapporti sessuali, che i casi di Hiv siano
solo una dozzina è un risultato eccezionale, sicuramente migliore delle
medie nazionali", conclude Butts. E comunque è questione di "onestà ",
parola che ricorre spesso nella Valley. Perché, a pensarci, l'unico modo
in cui questa comunità potrebbe sopravvivere senza angoscia sarebbe
trasformandosi in una setta chiusa, impermeabile ai rapporti con
l'esterno: 1.200 attori che facciano instancabilmente sesso tra loro
davanti alle troupe che li riprendono, con la certezza d'essere tutti sani
e perciò utilizzabili per le esibizioni più spericolate.
Il problema è che le cose non vanno così: ai performer fissi s'aggiungono
una gran quantità di "toccata e fuga", persone che per raccattare un po'
di soldi veloci partecipano a qualche film, magari solo per una settimana
o due. Poi ci sono i rapporti sessuali che gli attori della Valley
intrattengono nella loro vita privata, con partner magari più a rischio e
meno controllati di loro. E infine c'è il pericolo che, secondo le
cronache di questi giorni, s'è rivelato fatale: gli ingaggi all'estero,
sui set di Rio, Caracas o Budapest, come star d'eccezione di produzioni
porno più approssimative, nelle quali sono ben diversi i controlli
sanitari e le precauzioni sul set.
Del resto l'industria del porno non va per il sottile: girare nella San
Fernando Valley, con quell'atmosfera di regolamentazione che fa tanto
Hollywood, costa caro, più di quanto siano disposti a spendere gli ultimi
avventurieri del settore. Si va in location più economiche, e poi, magari,
per dare al prodotto una verniciata californiana s'ingaggia un attore o
un'attrice di L.A.. Alla fine il guaio è successo e ora l'ambiente
reagisce alla notizia con gran preoccupazione. Il porno resta un mondo
effimero e insicuro.
Il castello di carte si può dissolvere in pochi giorni. Basti dire che i
consumatori di video hard sono abituati a un flusso costante di novità e
di nuove proposte. Per orientarsi nelle scelte di solito s'affidano ai
marchi di produzione: ciascuno sceglie a proprio gusto i film d'una casa o
l'altra, ben sapendo come siano contraddistinti da un'ossessiva
ripetitività della rappresentazione.
Da un titolo all'altro cambia pochissimo, almeno all'occhio non troppo
maniacale. Le ambientazioni sono sempre le stesse, quelle sterilizzate
dell'anonimato postmoderno della Valley. Le situazioni sono improntate a
uno sbrigativo minimalismo che fa tanto "stress della vita moderna". Poi
si scopa, e se il film è fatto bene tutto sembra un po' credibile e perciò
arriva il plusvalore dell'eccitazione.
Ma un film di norma lo si guarda una volta sola, poi si passa al prossimo.
Ogni giorno ne arrivano dozzine sugli scaffali dei videoclub. E se il
flusso s'interrompe, come capita adesso, i consumatori presto si
rivolgeranno altrove, ad altre produzioni, magari europee, latine,
asiatiche. Per il porno classico di L.A., che tira avanti gloriosamente da
oltre trent'anni - proprio dai giorni roventi alla "Boogie Nights" - può
essere la bancarotta. Le case di produzione chiuderebbero, spedendo a casa
impiegati, tecnici e soprattutto attori, costretti a fare fagotto nella
speranza di sbarcare il lunario in un'altra capitale del porno. Sarebbe
uno choc culturale - o perlomeno "sottoculturale" - perché non c'è un
altro luogo dove questa industria abbia saputo edificare una mentalità
altrettanto professionale accoppiato a un lifestyle relativamente
potabile.
Perciò, sostengono gli operatori dell'Aim, bisogna correre ai ripari e
bisogna farlo subito e in profondità . "Le telecamere resteranno spente
fino all'8 giugno" dice Jill Kelly, che produce sei pellicole porno al
mese. "Ce ne staremo tutti lì preoccupati e seduti in circolo ad aspettare
l'arrivo dei risultati dei test. Perché la priorità è la sicurezza. Prima
dei soldi. Ma se sfumano i quattrini, se non si lavora più, anche la
sicurezza andrà a farsi benedire". Perché, come sempre accade, nei
dintorni del falò si aggirano i cowboys, quelli che se ne fregano, quelli
che per soldi rischiano, senza remore nel mettere a repentaglio la pelle,
soprattutto se è quella degli altri, magari di qualche giovane attrice o
di qualche volitivo stallone appena arrivati in città e assetati di
"azione". Continueranno a girare, lo faranno in clandestinità per non
incorrere nel boicottaggio dell'ambiente, a caccia nicchie di mercato
finora loro recluse. E i rischi aumenteranno in modo esponenziale.
Per non parlare del vecchio braccio di ferro tra l'industria dell'hard e
gli emissari del governo, tanto più quando si profila un appuntamento
elettorale per la Casa Bianca e di colpo la salute morale della nazione
torna a fare capolino nelle agende di chi vuole assicurarsi una bella
poltrona. Dopo la notizia sul contagio dei porno-attori, il dipartimento
di giustizia ha già messo sotto inchiesta 49 delle 57 case di produzione
della Valley. "La strategia è affamarci, paralizzandoci. Se ci fermiano,
se trovano il modo di mettere sotto tutela il nostro lavoro, saremo
costretti a chiudere bottega, che è esattamente ciò che pretendono i
leader dell'integralismo religioso. Peccato che non arrivino a capire che
questo non significherà certo la fine del porno, ma solo lo smantellamento
di un'industria che ha cercato di dare una dignità a questo lavoro".
Certo, non che i pornoattori ("talent" li chiamano laggiù) possano contare
su alcuna forma di rappresentanza collettiva. A parlare a nome di tutti è
la solita l'Aim, l'associazione salvavita di queste macchine del sesso. E
il cuore pulsante dell'Aim ha un nome: Sharon Mitchell, 43 anni, ex
attrice porno, sedici anni di tossicodipendenza da eroina e una vita
rovinata dall'herpes e da una pletora di malattie sessuali cronicizzate.
Oggi la chiamano "la zia del porno" e col suo lavoro di prevenzione,
informazione e certificazione salva la vita a dozzine di ragazzi e ragazze
che assaporano il momento ruggente sui set della San Fernando Valley.
"Questa è gente a cui piace infrangere le regole e vivere a doppia
velocità ", racconta il produttore Dave Pounder "e per noi Sharon ormai è
la Madre Teresa che ci tiene lontani dai guai". Nei laboratori Aim di
Sherman Oaks, interamente finanziati dai professionisti del porno che si
autotassano affinché la struttura resti operativa, dal '98 a oggi si sono
svolti ottantamila test anti-HIV con soli undici casi certificati. Ma
Sharon adesso pudicamente avvolta in un camice da medico, è molto
preoccupata: "I miei erano i tempi della rivoluzione sessuale. Ora è
diverso, e con tutte le forze cerco di far capire a questo branco di
scalmanati che l'Aids per loro è un vero rischio professionale, non una
remota opportunità legata solo alla sfiga. Ma è difficile tenerli
concentrati sul problema. Pensano soltanto ai quattrini e al modo di farne
tanti nel minor tempo possibile".
Eppure a cascarci è stata una vecchia volpe. Darren James è un
professionista affermato del porno della Valley, un veterano in
circolazione da sei anni, un nero con la faccia da comico e naturalmente
con attributi degni di nota. Nello scorso marzo accetta un ingaggio per un
film hard in Brasile, un misto di vacanza e lavoro mentre a Rio ancora
risuonano gli echi del carnevale. Sul set trova di tutto: dai travestiti,
nell'ambiente visti come i più a rischio-Aids, alla bellissima Bianca
Biaggi, superstar del porno made in Brazil.
Secondo la ricostruzione degli eventi, Bianca, ora anch'essa sieropositiva
alle analisi, avrebbe contratto il virus dai travestiti e l'avrebbe
trasmesso a Darren. In ogni caso, una volta rientrato a L.A., James si
sottopone agli esami di routine, ricevendone in cambio un verdetto
inappellabile: Hiv positive, certificato dal Pcrdna il cosiddetto
"supertest" anti-Aids per affidabilità , rapidità del responso e capacità
d'intercettare il virus appena contratto. I guai stanno proprio in
quest'ultimo parametro, perché è nella famigerata "finestra a rischio",
ovvero nelle settimane che trascorrono tra il contagio e la sua
certificazione, che James, riprendendo a lavorare nella Valley, ha
intrattenuto davanti alle telecamere rapporti sessuali con 12 ragazze. E
costoro, a loro volta, hanno avuto rapporti sessuali con un incerto totale
di una settantina di attori, senza contare i partner nella vita privata.
Così, appena arrivano i risultati del test di James, scatta l'allarme.
Cominciano i controlli dei "sospetti": qualcuno tira un sospiro di
sollievo quando i risultati sono negativi, ma la prima a disperarsi ha il
nome d'arte di Lara Roxx, una canadese arrivata solo nel febbraio scorso a
L.A., col progetto di fermarsi giusto il tempo di mettere insieme i soldi
per tornare a casa e aprire un negozio. A vederla nelle foto, Lara ha più
il physique du rà´le della ragazza irrequieta che le misure esplosive della
pornodiva. Magrolina, senza un goccio di silicone, bella faccia pulita e
capelli neri cosparsi di ciocche rosa da punkette: "E' stato il tizio che
ho preso come manager a telefonarmi per avvertirmi del guaio che era
appena successo. Anche lui, del resto, lo conosco poco, solo da quando mi
sono presentata nel suo ufficio a chiedergli un ingaggio nella Valley,
anche se non mi sentivo proprio pronta a tutto dal punto di vista
sessuale".
Fino a quel momento Lara aveva lavorato solo per un sito internet
canadese, di quelli che offrono a pagamento scene di sesso dal vivo via
webcam. Ma una volta a Burbank, Lara scopre che per una principiante come
lei le regole sono particolarmente ruvide. Sul set dove incontra Darren
James, deve fare i conti con tre stalloni che di lei fanno praticamente
polpette: "La stessa sera m'è venuto uno spaventoso sfogo sulle natiche e
poi un'infiammazione vaginale. Ho cominciato a girare per cliniche dove
trovavo solo medici che per paura di visitarmi non mi facevano neppure
spogliare, mi prescrivevano tonnellate d'antibiotici e mi spedivano a
casa. Per fortuna alla fine sono approdata all'Aim. Anche se qui
m'aspettava la sorpresa peggiore: il risultato del test-Hiv". Lara è
disperata.
In un'intervista a un sito internet che fa da bollettino industriale al
porno di L.A., dice di sentirsi tradita perché le avevano assicurato che
la scelta di lavorare qui la metteva al riparo dai rischi, mentre invece
il sistema ha dimostrato d'essere tutt'altro che a prova d'errore:
"L'avessi saputo prima, non avrei mai accettato di girare senza
preservativi". Racconta d'essersi intimidita su quei set dove chiedere i
certificati ai partner è consentito, ma dove l'anzianità di servizio
genera gerarchie non scritte: "Pensavo che nel porno di L.A. ci fosse
gente a posto di cui potersi fidare. Ero un po' imbarazzata, ma
tranquilla. E mi sono fatta fregare". Adesso ha finito i soldi, non sa
cosa sarà del suo futuro, sogna di frequentare un corso di cinema
all'Ucla, ma i quattrini per l'iscrizione chissà dove li pescherà .
E' andata meglio a Jessica Dee, la seconda a essere incappata nel contagio
provocato da James. Jessica ha 26 anni e, a dispetto del nome, viene dalla
Repubblica Ceca. Alla notizia della sieropositività ha reagito in modo
composto, come se facesse parte della scommessa cui ha affidato la propria
vita. Il suo atteggiamento è piaciuto a Jewel De' Nile, titolare della
Platinum X, la casa di produzione hard per cui Jessica ha lavorato spesso:
"Le ho offerto di occuparsi della regia dei nostri futuri film.
Approfitterò del periodo di stop per insegnarle i fondamentali, sia
tecnici che di gestione del budget, perché in questo ambiente il regista
s'occupa di tutto ciò che riguarda la produzione di un film. Ho fiducia in
Jessica: di fronte alla sventura s'è comportata con classe e ho deciso di
aiutarla".
Passano i giorni, continua il conto alla rovescia del contagio, arrivano i
risultati degli esami. Tutti tengono d'occhio il computer, perché
l'ambiente è strettamente connesso online e le informazioni circolano in
tempo reale: "Si cerca Francesca Sin, che ha fatto sesso orale con Darren"
dice il messaggio sull'home page di un sito d'informazione del porno nella
Valley. Pare che qualche casa di produzione, per non mandare a casa tutti,
pensi di girare presto qualche video lesbo con sole ragazze, a
limitatissimo rischio di contagio. In questi giorni s'è fatto vivo anche
Larry Flynt, il fondatore di Hustler, provocatore nazionale, titolare di
un film biografico firmato Milos Forman, nonché recente candidato al
governatorato della California, con un programma tutto basato sulle
libertà sessuali.
La casa di produzione di Flynt oggi è uno dei grossi calibri del porno
nella Valley, con 500 titoli immessi sul mercato ogni anno. E lui cerca di
tranquillizzare l'ambiente: "Non bisogna alimentare la notizia che
l'industria a luci rosse in California oggi sia gestita da criminali o da
un manipolo di pervertiti. Qui si realizza un fatturato paragonabile a
quello della General Electric e lo si fa lavorando bene e secondo le
regole". Flynt spiega che i controlli sanitari sono efficaci, ben fatti e
affidabili. Che i risultati dei test sono trasparenti e che le autorità
dovrebbero evitare di eccitare le paranoie, dal momento che è più facile
prendere il contagio dalla vicina di casa che da un'attrice porno. Che la
quarantena cui sono sottoposti gli attori a rischio sarà attentamente
valutata e che i relativi risultati saranno resi pubblici. E che infine
anche lui si schiera contro l'introduzione obbligatoria dei preservativi
nei film porno. Per un motivo semplice: i film nei quali circolano
preservativi semplicemente non vendono.
Motivo per cui le produzioni tenderebbero a spostarsi altrove, fuori dello
Stato della California o, se necessario all'estero, per non dover
sottostare a un'eventuale legislazione in questo senso. Così si
sgretolerebbe la rete di autocontrollo che ha garantito la sana
sopravvivenza del settore fino a oggi, e i contagi Hiv aumenterebbero
sicuramente a dismisura.
Dubbi e incertezze si disseminano nell'inconsueta calura di una bollente
primavera californiana che sembra estate piena. La gente del micromondo
del porno attende con ansia. Fanno rabbia e tenerezza, con quella loro
attitudine tutta spalmata sul credo "Qui siamo in America, anzi in
California. Le cose le facciamo meglio di tutti perché questa è la terra
consacrata dello spettacolo e del business". E' l'ennesima
rappresentazione di una percezione di privilegio e di uno stato mentale
che si sente assediato dalle invidie di chi rimane fuori dal Paradiso. Del
resto anche questa è Hollywood, fragile, avida e carnale. Come sempre
condannata alla regola che lo spettacolo deve andare avanti, altrimenti
tutti tornano a casa, il sogno s'infrange, le luci si spengono. Perché "Mi
guardi e dunque sono" resta l'unico comandamento che conta su questo
palcoscenico dei desideri, di cui gli hooligans sessuali della Valle non
son altro che il pendant effimero e arrazzato.