Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

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Da Esploratore del Porno a 'Pornografaro'


Ha solcato gli oceani dei generi cinematografici con la saggezza del marinaio d’esperienza. S’è sporcato le mani con le frattaglie risciacquandole poi alla fonte della sensualità. Spesso gli è capitato senza volerlo di fare la storia, tra l’erotismo e l’esotismo di un’Emanuelle e mondi deflagranti fatti di antropofagi e porno olocausti. Il suo cinema è stato un inno fatto di hard e soft sensations, in cui la necessità di riciclarsi si è sposata con le velleità creative concesse da budget e mercati ingrati. Ha iniziato da assistente del fotografo di scena, trovandosi davanti Anna Magnani e Duncan Lamont ne ‘La Carrozza d’Oro’ di Jean Renoir, ha finito filmando, tra le altre cose, le acrobazie sessuali del duo Rocco Siffredi - Rosa Caracciolo in un ‘Tharzan X’, versione porno delle avventure dell’eroe della giungla. E nel mezzo Aristide Massaccesi ha vissuto tante vite e tanti film, perché difficilmente nella sua esistenza le due dimensioni - vita e cinema - possono essere scisse.
Poco importa che si parli di lui come Joe D’Amato anziché Alexander Borsky, o ancora Michael Wotruba, Dario Donati, Raf De Palma aka Michael Di Caprio: alla fine è stato sempre lui, l’uno, nessuno e centomila del cinema di genere italiano. Cinema di genere in cui Massaccesi si è creato un vero e proprio microcosmo - o galassia, per meglio dire, una fittissima produzione che, senza nulla togliere agli episodi di stampo spaghetti western, si è prontamente indirizzata tramite un intermezzo decamerotico all’esplorazione della linea sottile che unisce amore e morte, Eros e Thanatos, colti nei loro aspetti più carnali. Nel cinema ‘damatiano’ degli anni Settanta, giustamente celebrato e ampiamente descritto altrove, si verifica un’escalation di tensione tra la vitalità della visione erotica e la morbosa attrazione derivante dall’esibizione della morte violenta, che ottiene il suo apice laddove il sangue si fa rosso e il sesso si tinge di nero: interazioni queste non solo cromatiche ma anche concettuali, a sancire un’inscindibile liason tra pulsione/perdizione sessuale e vocazione al nefasto, all’orrido, al putrescente.
L’occhio che uccide - per citare il titolo di un fondamentale thriller di Michael Powell - è lo stesso che ha ‘voglia di guardare’: ecco dunque che il cerchio si chiude. E il miglior Aristide Massaccesi aka Joe D’Amato si trova proprio lì, intento ad ammaliare lo spettatore con un soft rarefatto che poi si scopre porno per poi fustigarlo con ferocia. Lungi dunque dal voler ripetere una disamina della prima parte della carriera del nostro, mi limito a ribadire la necessità di comprensione di un dualismo che sedimenta su di una solida base erotico-avventurosa: una sorta di triangolo i cui estremi sono rappresentati da ‘Emanuelle in America’, ‘Buio Omega’ e ‘Sesso nero’. Questi i tre cardini da cui scaturisce una fioritura di titoli risalenti al periodo 1977/1980 che contemplano ‘Le notti erotiche di morti viventi’ (mai titolo fu così paradigmatico di un’intera carriera) giustapponendolo alle mostruose visioni di un ‘Antropophagus’ e al sesso ‘svogliato’ - eppure indimenticabile - di ‘Porno holocaust’, solo per citare alcuni dei casi più eclatanti.
Uno scivolare dal soft all’hard inesorabile, inevitabile ma non gratuito quello del Joe D’Amato del suddetto periodo, che, soppiantando l’horror tout-court, sperimenta una strada narrativa trasversale in cui innestare scene porno diegeticamente giustificate e quindi rispondenti alla logica della trama. Dopo la prova generale di ‘Immagini di un convento’, il risultato della visione dei già citati ‘Sesso nero’, ‘Porno holocaust’, ‘Hard sensation’ rappresenta una variante del cinema di genere che, per quanto estrema, è ben lungi dall’esserne una deriva. Riguardo a questo periodo, Aristide/Joe D’Amato ricorda ad Antonio Tentori in un’intervista del 1995: ’Tanti anni fa feci un film, quando cominciai a fare i film porno, che si chiamava Sesso Nero. Era un film molto indovinato perché c’era una storia, tutta ambientata a Santo Domingo (…) tutta una storia (…) collegata a fatti successi vent’anni prima. Andò bene, ed ebbe un grande successo’.

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Proseguendo sulla strada del porno, Aristide ‘abbandona’ temporaneamente l’identità di Joe D’Amato per assumere quella di Alexander Borsky. Sotto questo pseudonimo il regista gira una serie di 14 hard nella stagione 1080-81 caratterizzati da basso budget, tempi di ripresa molto più veloci che in precedenza, trame ridotte a canovacci più essenziali e definitivo accantonamento dell’elemento horror. Laddove prima si riprendeva en plan air, memori delle spiagge domenicane che salvaguardavano quel quid di turistico introdotto nella serie degli Emanuelle’s, qui abbiamo shooting in interni. A fronte di un ridimensionamento della qualità prettamente cinematografica, titoli quali ’Super climax’ o ‘Sesso acerbo’ guadagnano nello specifico pornografico - più accurata e ‘dedicata’ la ripresa delle scene hard, che diventano a tutti gli effetti il corpus delle pellicole, vuoi per il maggior minutaggio che per l’assenza di distrazioni ‘narrative’ o psicologiche a cui lo spettatore non è richiamato più di tanto.
Ecco: è adesso che Massaccesi si trasforma da esploratore del porno in ‘pornografaro’ vero e proprio, adottando tempi di realizzazione volti a massimizzare i risultati con sforzi più contenuti. La produzione di pellicole pornografiche come catena di montaggio, dunque: una catena ‘allegra’ - sappiamo che il clima sul set era estremamente cordiale e rilassato - di cui ‘Alexander Borsky’ è mastermind esecutivo e decisionale.
Essendo alla fin fine molto simili nel cast e nella dinamica delle performance, questi prodotti possono dirsi alla lunga investiti da una sorta di ‘aurea mediocritas’ qualitativa. Pare infatti di assistere ad un unico film con varianti minime, la cui puntualità realizzativa rende comunque la visione piacevole e focalizzata su un’aspettativa pratica e largamente soddisfatta.
Volendo soffermarsi sul cast delle produzioni a nome Borsky, è inevitabile constatare come le attrici destinate alle scene hard garantiscano un più ampio sentore di coinvolgimento nelle performance che le vede coinvolte. Segno anche questo di un maggior savoir faire nel fare sesso davanti ad una macchina da presa, che evidentemente mancava alle donne dei film caraibici (Annj Goren e Lucia Ramirez soprattutto). Le varie presenze ricorrenti in questa seconda filone massaccesiano si chiamano Sabrina Mastrolorenzi, Laura Levi, Pauline Teutscher e Françoise Perrot. Verso quest’ultima - visibile in ‘Voglia di sesso’ tra gli altri - Aristide ebbe belle parole durante un’intervista a Franca Faldini e Goffredo Fofi datata 1984: ‘Quella che aveva molto piacere a farlo (…) era Françoise Perrot (…) Voleva fare questi film per provare quest’esperienza. Le altre in genere sono tutte uguali’.
In seguito a questo corpus di film, molti dei quali girati all’interno di una stessa villa affittata per l’occasione, il porno di Massaccesi si tinge di peplum ed acquisisce così quel sapore ’storico’ che verrà poi ampiamente riproposto dal nostro nella sua produzione degli anni ’90. Stiamo parlando del trittico ‘Caligola…la Storia Mai Raccontata’, ‘Messalina Orgasmo Imperiale’ e ‘Una Vergine per l’Impero Romano’ ascrivibili alla stagione 1982/83 ma girati nel 1981. Il ‘Caligola’ massaccesiano, in cui il regista è accreditato come David Hills, segna il ritorno ad un contesto violento ed efferato secondo uno schema che tenta di seguire il ben più sontuoso e ambizioso ‘Caligula’ diretto da Tinto Brass nel 1979, finendo per esserne una versione low budget votata ad un estremismo gratuito e sopra le righe. Nondimeno il film conferma come D’Amato si trovi a suo agio nel proporre alla propria maniera storie ‘in costume’, rielaborandole e semplificandone i risvolti in modo da renderle idonee ad una fruizione più ‘popolare’ e meno pretenziosa. Questo a discapito della dimensione psicologica dei personaggi, si dirà: vero, del resto ha ragione chi sostiene che Massaccesi, pur non amando la soluzione pornografica poi sposata in toto, non ha mai aspirato al cinema d’autore propriamente detto. La sua grande capacità risiede, a parere di chi scrive, nel trovare una giusta via di mezzo in cui salvare una cornice narrativa godibile e suscettibile di interpolazioni soft/hard che arricchiscano, senza prevaricare, la natura del prodotto.
Accolto negativamente dalla critica pressoché all’unanimità, questo suo ‘Caligola’ può essere visto anche come una sorta di crepuscolo e ‘caduta degli dei’ del primo Joe D’Amato: in un sola pellicola confluiscono infatti Laura Gemser, musa evergreen del nostro fin dal decennio precedente, Manlio Cersosimo/Mark Shanon, autentico prototipo della generazione maschile italiana dei pornoattori e volto/corpo ben noto nei film di Aristide, più un nutrito stuolo di pornoattrici già presenti nelle produzioni Borsky sopra descritte (le varie Levi, Mastrolorenzi, Teutscher, Roussial). Se si tiene conto che gli altri due ‘porno peplum’, ‘Messalina’ e ‘Una Vergine’, altro non sono che film di recupero che utilizzano gli stessi costumi e scenografie del già citato ‘Caligola’, si arriva alla pratica della generazione di nuovi titoli partendo dalla regia vera e propria di un unico film, riproposto poi al pubblico opportunamente rimontato e alterato nella trama portante: si tratta di un’arte del recupero e del riciclo di prodotti cinematografici in cui Aristide si dimostra già abile fin da tempi non sospetti nel mercato dell’hard, e che diventerà pratica usuale nella collaborazione ricorrente con Franco Lo Cascio/Luca Damiano nel decennio a venire.

Appendice: l’hard nei due Caligola

Appare piuttosto ingeneroso confrontare il contenuto hard della pellicola ‘Io Caligola’ con quanto di porno si vede in ‘Caligola…la Storia Mai Raccontata’. Al netto dei richiami softcore del film ascrivibile solo in parte a Brass, la principale differenza dello specifico hardcore delle due opere sta tutta nella qualità delle scene proposte, e, va da sé, nel fascino e nella ‘dedizione’ delle attrici coinvolte.
Nella versione in lingua italiana visionata del film di Massaccesi (per una durata totale di 1:58:12) assistiamo alla prima scena hard dopo 48 minuti e 50 secondi. Il tutto consiste in una fellatio di Nadine Roussial: il membro maschile lo vediamo in una inquadratura frontale solo venti secondi dopo. La performance è frequentemente interrotta da stacchi sui dettagli delle ancelle circostanti, colte nell’atto di masturbarsi (tra queste, Sabrina Mastrolorenzi). La sequenza è idealmente conclusa dal primo piano su Laura Gemser al 51:19, presentando dunque una durata inferiore ai tre minuti.
All’altezza dell’ora di film (1:01:42 per la precisione) abbiamo un ulteriore pompino ripreso con camera a mano, che dà il via ad un significativo segmento orgiastico in cui anche la Mastrolorenzi è alla prese col sesso orale, in cooperazione con Nadine Roussial. E’ la volta d’una fellatio di Pauline Teutscher che passa poi alla penetrazione, il tutto intervallato da un altro groviglio di corpi e anatomia varia piuttosto confuso, rabberciato e ripetitivo (si torna sulla Roussial, sempre intenta nella performance già citata, si dà uno sguardo a Laura Levi alle prese sia con Mark Shanon che con una ragazza bionda, si sbirciano lingue e tentativi di eiaculazione più o meno riusciti). Poco meno di sette minuti dopo è ancora il volto statuario della Gemser a interrompere il frammento hard, di cui si continuano a udire i vari sospiri. Ma è solo un attimo: eccoci dunque al 69’ minuto ad osservare la Matrolorenzi che, viso dolce e occhi socchiusi, si trova in un ventaglio di tre uomini di cui non si scorgono comunque gli attributi. Di maggiore impatto allora è la masturbazione impartita dalla Levi ad un uomo di colore, il cui membro beneficia anche di un breve primo piano: va detto che Laura appare presa da una lascivia gestuale e facciale che non fa rimanere indifferenti. Anche in questa seconda porzione di orgia il regista tende a raccogliere all’interno dello schermo vari frammenti di performance sessuali col consueto metodo della ripresa in continuità, a sottolineare i momenti di simultanea lussuria collettiva.
Una volta risolta questa ‘pratica’, la quota hard del film può dirsi risolta: fatto salvo un momento erotico di unione di Laura Gemser con David Brandon (nel ruolo di Caligola), i restanti 47 minuti di film sono dedicati interamente al racconto.
Nel contesto sopra descritto, di notevole intensità recitativa appare la scena relativa all’’offerta della verginità’ della suddetta Gemser al ‘Principe delle Tenebre’: in suo onore la donna si deflora con un grosso fallo che pare di legno. La penetrazione non è visibile, quindi a rigore non me la sento di parlare di hard a tutto tondo, nondimeno la smorfia di dolore finale rende il tutto intenso, sofferto e non privo d’un certo erotismo.
A beneficio d’inventario, va aggiunto che esiste un’altra versione del film in lingua inglese, intitolata ‘Caligula 2: The Untold Story’, della durata di 2:06:04. In questo caso abbiamo un’ulteriore scena hard assente nella versione italiana: si tratta di una masturbazione equina effettuata da una donna non identificata su uno stallone introdotto nella sala in cui sta avendo luogo l’orgia di cui abbiamo appena parlato. Il tutto si protrae per 4 minuti a partire dal 1:04:05 circa, alternando i momenti di contatto mano/membro con scorci del baccanale che di lì a poco verrà mostrato nel modo già descritto in precedenza.

Per quanto riguarda invece il Caligola datato 1979, sono ben note le numerose traversie incontrate in sede di sceneggiatura e regia per la realizzazione di questo kolossal dell’eccesso. Non lo prendiamo qui come fonte di analisi, ma semplicemente come testo di confronto per quanto attiene alle sequenze hard volute e girate non da Tinto Brass, bensì da Bob Guccione e Gianfranco Lui. Forte della durata di 2:36:02, la Penthouse Edition dovrebbe essere ad oggi la versione più completa di quest’opera mastodontica, ragionevolmente comprensiva di tutti quelli che pensiamo essere i tagli apportati alle numerose versioni uscite in precedenza.
Fin dal primo breve ‘flash’ porno, dopo 18:10 minuti dall’inizio del film, appare chiaro il sontuoso lavoro del direttore della fotografia Silvano Ippoliti a prediligere colori saturi, esasperati nella loro intensa tonalità e mitigati da un uso teatrale dei chiaroscuri. C’è tutto un ampio contesto di amplessi che, seppur non dettagliati, ‘circondano’ le inquadrature in una lussureggiante orgia che Malcom McDowell osserva con quel suo sguardo spiritato. Il montaggio è veloce, non ci si dilunga sulle performance ma se ne hanno assaggi brevi e visivamente gustosi. Dopo 1:02:25 McDowell e Therese Ann Savoy si dilettano nell’assistere a voluttuose scene saffiche. La qualità delle Penthouse Pets volute da Guccione per i frammenti supersoft è di prim’ordine, ancora una volta la fotografia ci restituisce immagini dal cromatismo quasi pittorico. All’altezza dell’1:21:28 una dominante di rosso in penombra ci introduce ad un momento lesbo decisamente caldo e ben ripreso: si indugia lentamente sui corpi di Anneka Di Lorenzo e Lori Wagner esaltandone le reciproche effusioni e il magnifico cunnilingus. Laddove la macchina da presa di Massaccesi stacca ripetutamente sui dettagli, qui si riprende la performance con una panoramica intima e carezzevole conclusa da un impetuoso 69: sono passati solo due minuti e mezzo, eppure abbiamo la sensazione d’aver assistito ad un woman vs woman tra i migliori dell’intera storia del cinema erotico. Detto di un breve pissing in dettaglio tutto al femminile, arriviamo infine alla celeberrima scena dell’orgia che costituisce da sempre uno dei tagli più clamorosi delle varie versioni ‘sforbiciate’. Le Pets sono splendide, poco da dire. Tra le altre, riconosciamo due fellatio rispettivamente da parte di Jane Hargrave e Signe Berger, l’estasi di Carolyn Patsys nel succhiarsi avidamente le dita, un intenso primo piano di Susanne Saxon, poi ripresa con una zoomata in lesbo action con la già citata Carolyn. Il corpo ‘multiuso’ di Valerie Rae Clark si presta a lesbicare con Carolyn ricevendo nel frattempo un cunnilingus da attore non identificato, quindi ecco un breve stacco sulla ‘cavalcata’ di Lori Wagner. Si tratta, nel complesso, di un montaggio sequenza in cui vengono dedicati brevi inquadrature a ciascuna attrice, il tutto per un minuto e venti circa prima di tornare su McDowell che ‘arringa’ la folla ad abbandonarsi alla lussuria. Nel segmento seguente (siamo arrivati alle due ore e dodici minuti) si prosegue sulla stessa linea, assistendo anche per alcuni istanti ad un golaprofonda da parte di Signe Berger, subito coadiuvata da Anneka Di Lorenzo.
Se dovessimo scegliere una dimensione registica autoriale per l’hard, le riprese di questa ‘additional scene’ a cura, presumiamo, di Bob Guccione, sono quanto di più vicino alla nozione di ‘porno d’autore’ ci vengono alla mente: donne bellissime e vogliose che sanno ‘recitare’ il sesso senza limitarsi ad eseguirlo, uomini con degne erezioni, indiscutibile perizia regisitica nel non eccedere (e quindi nel non annoiare), gusto barocco nel fotografare.

Detto questo, ecco forse la macroscopica differenza che intercorre tra i due ‘Caligola’ esaminati: l’ostentata autorialità di Brass/Guccione, la consapevole messa in scena artigianale dell’arrangiamento di un Massaccesi che fa, come sempre, di necessità virtù. Almeno, nei limiti a lui concessi dal budget e da un cast tutt’altro che irresistibile. Bisogna comunque tener presente che tra i due film non c’è nessuna relazione di sorta: per cui il fatto che il prodotto di Aristide sia titolato all’estero come ‘Caligola 2’ è una inesattezza, visto che non si pone in alcun modo come sequel del primo. Per questa ragione il confronto appena fatto si muove inevitabilmente su binari cinematografici differenti, andando a scontrarsi su quelle barriere economiche e creative che separano il cinema di genere da quello di pretese più alte, non sempre mantenute.

continua...
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Ritorno al Soft

Nel 1983 Aristide ‘Joe D’Amato’ Massaccesi interrompe la sua produzione porno, principalmente a causa delle numerose azioni giudiziarie a cui il settore del cinema a luci rosse era continuamente sottoposto. Un clima difficile e pericoloso, in cui fioccavano sequestri di pellicole e denunce assortite per registi, esercenti, produttori e tutti coloro che ruotavano attorno a questo business.
Non tutto il male venne per nuocere, verrebbe da dire: si, perché con lo stop forzato di un sistema che aveva trovato una lucrosa quadratura il regista riorganizza la sua carriera spostandola verso pellicole erotiche. Quell’erotismo che, com’è ormai chiaro, costituisce la zona comfort di Aristide, esaltandone la vena creativa e l’amore per i particolari. Ecco dunque pronta tra il 1985 e il 1986 una quadrilogia di titoli significativi: ‘L’Alcova’, ‘Il Piacere’, ‘Voglia di Guardare’ e ‘Lussuria’, tutte ambientate negli anni 30/40 all’insegna di una torbida lussuria decadente. Star di queste pellicole è una bellissima Lilli Carati che appare nel pieno della sua maturità di donna lascivamente ‘dannunziana’, accompagnata da presenze ben note per il pubblico di D’Amato: la musa Laura Gemser, la sbarazzina Annie Belle, la sempre notevole - seppur mai pienamente ‘risolta’ - Jenny Tamburi. Indicativo il fatto che nessun nome del periodo porno sia stato recuperato per queste produzioni, più impegnative dal punto di vista recitativo.
E’ stato fatto notare che ‘La Chiave’ di Tinto Brass sia per molti aspetti il modello da cui parte la rinnovata produzione supersoft firmata Joe D’Amato, il che a nostro avviso è vero solo in parte. Il ventennio fascista serve da stimolante sfondo storico per sovvertirlo ‘dall’interno’ tramite la scrittura di storie di iniziazioni saffiche, pruriti alto borghesi, uomini di regime che, smessi i panni di combattenti, si crogiolano in vizi e perversioni domestiche d’erotica evasione.
In questo contesto il cinema di Massaccesi pare ritrovare entusiasmo per se stesso, proponendosi in grande spolvero tecnico e contenutistico. Lo sguardo della camera ritrova il gusto per la descrizione del corpo della donna, qui esibito con movimenti più lenti ed appagati rispetto alla fretta da mestierante con cui Aristide aveva affrontato le sue ultime realizzazioni hard. L’occhio del regista è il primo a compiacersi di ciò che vede, e quindi di ciò che mostra, come in una sorta d’innamoramento stilistico verso ‘quel’ tipo di cinema, ‘quel’ tipo di erotismo in cui si mostra non tanto un contenuto carnale, bensì una passione che ha come risultante un trasporto fisico ed emotivo. Ecco spiegata ne ‘L’Alcova’ l’intensità che si respira nella scena d’amore tra Lilli ed Al Cliver, in cui lei, avvinghiata all’uomo, geme tenendo gli occhi aperti (cosa che non farà mai nei suoi successivi film porno, in cui le scene di deflorazione la immortaleranno sempre impassibile con sguardo chiuso, serrato, come a negare un piacere evidentemente non provato). L’incontro lesbo Lilli-Annie spiato da Laura Gemser reca in sé l’antico sapore del voyeurismo cinematografico, qui rinnovato vista la sua eterna efficacia nella ripresa dei giochi erotici. Per contrappunto, la sensualità delle carezze en plan air della Carati a Laura, seguite da un bacio altrettanto languido, vengono scrutate con gelosia da Annie alla finestra: la giostra degli scambi di miele e veleno risiede tutta in questo triangolo al femminile.

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Detto dei suggestivi giochi chiaroscurali degli interni, che, complici le illuminazioni da fonti diegetiche quali candele o lampade, restituiscono allo spettatore la perizia del ruolo di direttore della fotografia qual era appunto Massaccesi, il valore aggiunto della dimensione soft damatiana risiede nella volontà di mostrare scene audaci, esplicite e spinte senza sfociare gratuitamente nella sfacciata totalità genitale. Naturalmente non si tratta d’una scelta dettata dal pudore, quanto di una consapevole strategia che acuisce quella ‘voglia di guardare’ che investe ad esempio Al Cliver al punto di spiare dalla porta semichiusa le effusioni della moglie Lilli con ‘la schiava’ Laura, portata dal’Abissinia. Questo tema dell’ospite ‘esotico’ che irrompe nella casa borghese alterandone gli equilibri emotivi e sessuali riporta alla mente il ’Teorema’ di Pier Paolo Pasolini, suggestione tutta cinefila che comunque appare appropriata al contenuto del film in oggetto. Film che, com’è chiaro, si muove secondo delle dinamiche narrative solide e ben articolate. ‘Lo sceneggiatore era Ugo Moretti e aveva congegnato una storia che era giustissima, quindi funzionava molto anche dal punto di vista delle immagini’ ricorda Aristide ad Antonio Tentori nelle pagine di un ‘Blue’ del 1995. Secondo lui, del periodo anni 30/40 ‘funziona molto l’ambiente, la musica, l’atmosfera, la scenografia’. E’ come se il regista, dopo quasi dieci anni di intensi flirt col porno sfociati poi nell’hardcore vero e proprio, volesse compiere con questi nuovi film un ritorno all’origine del concetto dell’eros filmato, calandolo in un contesto agée fatto di tabù e delle inevitabili perversioni che da sempre accompagnano i periodi storici più oscurantisti. Va da sé che per un erotismo vintage sono le scene lesbo a farla da padrone, cosa che rende ‘L’Alcova’ un film di donne. Sono le donne ad agire, ad amarsi. L’uomo è voyeur per eccellenza, convocato solo per volere della femmina e mai realmente oggetto di lussuria.

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A fronte dell’ennesimo momento di alta sensualità e lascivia di Lilli e Laura eccitate durante una breve lezione pianistica, la pellicola ci regala anche una parodia del film porno, tutt’altro che edificante. Il gerarca interpretato da Al Cliver si diletta infatti nella regia e nella visione di filmini porno in super8 che poi mostra alla moglie. Assistiamo dunque alla proiezione di un loop che a ben vedere non ha nulla di eccitante, anzi: la velocità del montaggio con cui è mostrata una masturbazione ha del comico, senza tacere delle varie penetrazioni prive di soluzione di continuità. Torna alla mente una frase che esprime bene il pensiero di D’Amato: ’Nel porno, che è solo badabum badabum, secondo me non c’è nessun erotismo’. Nondimeno colui che pronuncia queste parole sarà protagonista negli anni Novanta di una fiorente e copiosa produzione di hard in costume con nomi di primissimo piano nel settore: evidentemente la versatilità stilistica di Massaccesi è talmente flessibile da permettergli di muoversi su entrambi i versanti, soft castigato e porno vero e proprio, con risultati molto spesso apprezzabili. Certo è che la sua zona comfort di uomo di cinema non è quella pornografica.
Torniamo allora ad occuparci di quella produzione erotica ricordando ‘Il Piacere’, episodio molto interessante in cui l’amor fou del protagonista Gabriele Tinti (altro attore feticcio di D’Amato nel periodo delle ‘Emanuelles’) lo porta in un vortice morboso, in cui una frugale evasione sessuale consumata in un vicolo non basta a lenire la necessità di onorare il corpo dell’amata defunta, baciandone le mani e vestendola con cura - malsana reminiscenza dei tempi e delle tematiche di ‘Buio Omega’ verrebbe da dire, seppur ammantate da quella grazia stilistica che si deve ad un prodotto di natura esclusivamente erotica. Sugli scudi la suggestiva fotografia del nostro Aristide, anche qui galvanizzato dalle possibilità cromatiche offertegli dall’illuminazione di focolari e candele nei momenti dei rituali di piacere. Il film è caratterizzato dal tema del doppio, essendo la figlia della defunta praticamente uguale alla madre: somiglianza fatale per l’equilibrio psichico e pulsionale del protagonista, che si troverà di fronte al ritorno dell’amata nelle sembianze della ragazza. La storia recupera anche un leitmotiv ‘spettrale’ se vogliamo, in quanto il duplice ruolo di madre e figlia viene interpretato dalla stessa attrice, Andrea Guzon.

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Se ‘Voglia di Guardare’ trova ragion d’essere nel titolo stesso, annunciandosi come un trattato sulle gioie del voyeurismo di un medico cuckold, ‘Lussuria’ è un vero e proprio omaggio tematico a certi ‘topoi’ pruriginosi degli anni ’70, in cui è la zia Lilli a far superare l’impasse sessuale del problematico Alessio.
Il periodo 1985/86 relativo alle produzioni ‘retrò’ ci regala uno stile cinematografico curato sotto tutti gli aspetti, elemento che D’Amato manterrà nella sua futura filmografia soft negli anni a venire. Del resto, come lui stesso ammetterà a ‘LUnità’ in un’intervista del 1997, ‘Tengo una produzione parallela per la mia salute mentale. Girare film porno è di una noia mortale’. Con la definizione di ‘produzione parallela’ il nostro si riferisce alla continuità dedicata ai film erotici e a prodotti di genere thriller, seppure privati della carica horrorifica ed estrema tipica dell’ultimo scorcio degli anni Settanta.
Per andare nel dettaglio, a partire dal 1987 il cinema di Massaccesi va incontro ad un’apertura al softcore in salsa americana evidenziata da un titolo come ‘Eleven Days Eleven Nights’ ambientato in quel di New Orleans. Il film prende liberamente spunto da ‘9 Settimane e Mezzo’ per darne una rilettura gustosa, divertente e, ovviamente, ricca di sex appeal. A dominare la pellicola è la sensualità di Jessica Moore, ovvero Luciana Ottaviani. Ex ‘Ragazza Coccodè’ a ‘Indietro tutta!’, Luciana aveva esordito al cinema proprio sotto la direzione di Massaccesi/D’Amato nell’anonimo ‘La Monaca nel Peccato’ (1986). Si tratta dell’autentica new sensation per questo nuovo percorso artistico di Aristide, che rimane - per adesso - ancorato ad un erotismo a tinte forti (si veda il vivace amplesso di metà pellicola con curioso scambio dei ruoli: donna in giacca, uomo in eccentrica tenuta da soubrette). Stupendamente panoramica l’inquadratura dei corpi nudi dal basso al minuto 44.09, che esalta la statuaria fisicità di Jessica e il fondoschiena di Joshua McDonald, protagonista maschile: siamo spesso ‘ad un passo’ dall’hard, e D’Amato si diverte in questa fase a farci bramare quel ‘quid’ che resta occulto, anche se di poco.

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Il successivo ’Top Model’ viene inaugurato con la camera di Massaccesi che segue dall’alto la camminata di Jessica lungo i marciapiedi affollati di New Orleans. Quei suoi seni che si agitano vivacemente stretti dal corpetto bianco valgono la visione ripetuta dei titoli di testa, come altrettanto memorabile è il suo lascivo strusciarsi nuda sui corpi dei manichini durante uno shooting fotografico. Potremmo dire che i momenti erotici creati dal regista per questi suoi due nuovi film hanno un non so che di glam, una patina che li allontana dal modello italiano per porsi come prodotti adatti all’esportazione oltreoceano, sensazione acuito anche dal look dei personaggi, dalla loro connotazione sociale nel mondo del business, perfino dall’arrangiamento musicale rigorosamente in inglese e molto ‘trendy’. Azzardiamo dunque a definire questi ‘Eleven Days’, ’Top Model’ e i titoli che li seguiranno come esempi di un erotismo ‘mainstream’ che, per quanto ardito, risulta levigato da un contesto ed una confezione ‘televisiva’. Nuovi orizzonti commerciali, evidentemente.
Con i successivi ‘Amore Sporco/Dirty Love’ e ‘Pomeriggio Caldo’ (1989) Joe D’Amato si avvia a proporre un format in cui l’erotismo, seppur presente, non è più elemento preponderante e assoluto. Star di questi film è Valentine Demy (la nostra Marisa Parra), volto dolce incorniciato da un caschetto nero e fisico che esibisce il suo magnifico lato B nell’ennesima imperdibile inquadratura dal basso al minuto 28:13 di ‘Dirty Love’. La location ideale resta New Orleans anche per ‘Pomeriggio Caldo’, in cui Massaccesi imbastisce attorno a Valentine una storia fatta di riti voodoo e fascinazioni stregonesche. Si rinnova dunque un canovaccio fatto di magia nera e sensualità culminante nel rituale del sangue versato sul corpo nudo della protagonista.
Questi frammenti di sesso cristallizzato in schegge di scene che, per quanto esplicite, non riescono a nascondere una certa algidità di fondo si tinge poi di thriller/action movie in titoli di maniera quali ‘Ossessione Fatale’ e ‘Il Diavolo nella Carne’, che hanno comunque il merito d’introdurre la procace bellezza mediterranea di Carmen Di Pietro.

La spinta compulsiva ad adattare il proprio concetto di erotismo cinematografico alle tematiche di maggior richiamo commerciale porta Aristide verso una nuova, radicale scelta produttiva figlia del successo ottenuto nel 1991 da un film come ‘Sex and Zen’. Il nostro Joe D’Amato pensa bene di ispirarsi alla sensualità del mondo erotico orientale trattata in questa pellicola per dare il via ad una serie di film da girare in loco, che ripropongano questo fascino esotico. Con lo pseudonimo di Robert Yip ecco allora uscire nel 1993 ‘I Racconti della Camera Rossa’, opera in cui il nostro recupera lo schema del racconto di storie di sesso narrate dal protagonista in una sala da tè dando vita ad un vero e proprio film a episodi secondo i dettami cari allo stile decamerotico degli anni ’70. La tipologia delle storie narrate va dalla commedia degli equivoci a colorite vicende di tradimenti e sfoghi sessuali di sapore boccaccesco, con un epilogo morale nella conclusione. Valutando il taglio che D’Amato ha imposto al film non possiamo esimerci dal collocarlo nel filone del ‘Decameron’ pasoliniano rivisto e calato in un contesto in tutto e per tutto orientale. ‘Andai solo con il copione nelle Filippine - ricorda Aristide - lì ho trovato dei tecnici eccezionali’.
‘Chinese Kamasutra’ parte anch’esso da uno spunto letterario, la lettura del testo cui si abbandona la protagonista occidentale (una notevole Georgia Emerald) cominciando ad immaginare tutta una serie di situazioni ad alto tasso erotico introdotte dalla sua voce narrante. Si tratta di un film ben riuscito con le sue atmosfere oniriche e rarefatte, in cui la voluptas dell’immaginario risvegliato dalle iconografie si fonde con il gusto delle scene di sesso ‘reali’ che vedono coinvolta la donna. Ci pare che Massaccesi ritrovi in questo suo filone orientale una via di rappresentazione del soft più libera e disinvolta rispetto agli ultimi episodi americani, più spartani e controllati. In ‘China and Sex’ il racconto fiabesco assume i contorni di una vera e propria iniziazione sadomaso all’esperienza erotica come fonte di piacere e dolore, dimostrandosi forse il titolo più suggestivo di questi cinque lavori asiatici, tutti ascrivibili allo stesso anno, il già citato 1993.

Appendice: L’erotismo di D’Amato visto dai quotidiani

Partiamo da ’La Stampa’, che in data 12 Aprile 1985 dedica un pezzo a ‘L’Alcova’, film con cui Massaccesi inaugura una produzione soft che non abbandonerà mai del tutto, pur non essendo stato il suo pane primario. Nell’articolo si legge che ‘Ogni tanto, anche gli autori delle luci rosse o della commedia erotica più corriva, cercano di uscire dal ghetto. Non mirano solo a un altro tipo di pubblico (…), ma a una certa attenzione critica’ E’ chiaro il riferimento a Joe D’Amato avvertito come regista ‘al limite’, visti i suoi recentissimi trascorsi nel porno. Un ‘ghetto’ - citando il testo - da cui probabilmente il regista non sarebbe comunque uscito se non si fosse verificato l’oggettivo problema giudiziario che mise di fatto in ginocchio la prima gittata dell’hard italiano, a suon di denunce e provvedimenti ai danni dei cinema a luci rosse. Questo per restituire alla Storia una verità più ampia di quella ventilata nel quotidiano. All’epoca - parliamo del 1982/3 - i cinema porno procuravano incassi con molta continuità, ragion per cui a nostro avviso un regista ormai votatosi a produzioni evidentemente valide in ottica commerciale non avrebbe avuto motivi di staccarsene, se non costretto da cause di forza maggiore che non vanno ricercate in velleità autoriali per altro mai eccessive nella vicenda artistica di Aristide Massaccesi. Tuttavia l’articolo dispensa poi parole significative: ‘D'Amato dimostra che si può benissimo darsi delle arie e inventare la novella erotica sulle macerie del film hard. Lui non ha a disposizione i migliori scrittori americani come Playboy, ma gli basta Ugo Moretti, letterariamente esperto dell'Italia fascista’.
Mercoledì 21 Agosto 1985 nel CorSera si legge una recensione de ‘Il Piacere’, secondo film della quadrilogia di D’Amato ambientata in epoca fascista con protagonista Lilli Carati. Il quotidiano scrive: ‘Il regista Joe D’Amato ripropone le ricette “Venezia-fascismo-erotismo” - Intellettualismo decadente - Una Lilli Carati con un corpo ancora da ragassa’ facendo riferimento al film ‘Il Corpo della Ragassa’ interpretato da Lilli nel 1979. Chiamare in causa lo spettro dannunziano per questo film ci pare cosa giusta, del resto: magari c’è da discutere su una nozione di ‘intellettualismo’ che mai abbiamo riscontrato nei lavori di Massaccesi, Ad ogni buon conto nell’articolo si sottolinea che ‘(…) non si può negare ad Aristide Massaccesi di avere qualità figurative, nel racconto, e di usare luci e colori con quel gusto d’eleganza un po’ flou (…)’ Riscontrando limiti - se non difetti - nella sceneggiatura, il recensore conclude che ‘alla fine resta l’impressione di aver visto qualcosa di ben fotografato e basta, dove il comune senso del pudore si limita al nudo femminile, senza accoppiamenti o con solo vaghi accenni’. La considerazione è giusta, in quanto nel già disinibito panorama delle luci rosse dell’epoca, fruite naturalmente solo nelle sale cinematografiche, il trovarsi di fronte ad un prodotto che compie visivamente ed esteticamente molti passi indietro tornando alla logica del ‘vedo/ non vedo’ sarà senza dubbio stato spiazzante (questo valutando soprattutto il nome del regista, ormai avvezzo all’hard). Per cui dovremmo forse valutare a tutt’oggi la produzione soft imbastita da D’Amato nel 1985/86 come un estremo atto d’amore formale nei riguardi di un’epoca in cui ben si collocavano storie torbide si, ma non pornografiche. Contestualmente, l’articolo del CorSera prosegue parlando di ‘meccanismi narrativi e psicologici molto elementari’, il che risponde a quell’attitudine di D’Amato di preferire, almeno nel soft, le sfumature fotografiche a quelle del racconto, non mancando di evidenziare la piacevolezza dell’altra protagonista del film: ‘(…) Andrea Isabelle Guzon che, oltre a tutto il ben di Dio che mostra, ha anche l’occhio vispo, il che non guasta’.

continua...

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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#3 Messaggio da Alec Empire »

L'Hard 'Alimentare'

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Cannes, Hot D’Or 1998. Alla kermesse per eccellenza del cinema hard si va per ricevere premi, fare sontuose presenze, stringere accordi commerciali e proporre i propri prodotti. Aristide ‘Joe D’Amato’ Massaccesi concorre con due suoi porno, ‘Torero’ e ‘Le Notti Erotiche di Antonio e Cleopatra’. Di riconoscimenti non ne prende, ma poco male: ‘Ho venduto i sette film che ho fatto quest’anno in tutto il mondo - afferma soddisfatto a ‘La Stampa’ - sto per partire con un nuovo film che girerò in Ungheria, una storia erotica di pirati.’ Attivo come non mai, Aristide ha concluso i suoi affari e venduto il suo hard. Già, ma non eravamo rimasti ai film erotici girati in Oriente nei primi anni Novanta? Evidentemente occorre riavvolgere il nastro. Che il flashback abbia inizio.

‘Negli anni ’80 ho fatto i primi hard per un motivo legato al mercato (…) Adesso sono tornato all’hard per un fatto alimentare, perché ho bisogno di soldi’ questa, in sintesi, la motivazione con cui Aristide spiega il suo ritorno alla produzione di film porno a partire dal 1993, a distanza d’una decina d’anni dall’uscita del suo ultimo hard ottantiano. In verità, il rapporto di Joe D’Amato col genere pornografico è assai curioso e controverso: pur non rappresentando la modalità preferita di espressione, è come se il regista fosse fin da tempi non sospetti naturalmente ‘portato’ a questo genere filmico, riuscendogli particolarmente facile e disinvolto giustapporlo in contesti ‘altri’ - thriller, horror e via dicendo. La differenza tra la sua prima produzione porno databile 1976/1981 (se si fa partire il tutto dall’inserto a luce rossa di Marina Lotar in ‘Emanuelle in America’) e questo massivo ritorno alla produzione di film espliciti a partire dal 1993 è dunque motivazionale: la prima fu una sorta di esperimento audace e ben consapevole di poter replicare in Italia gli ampi riscontri che le pellicole piccanti stavano ottenendo all’estero, questa deriva pornografica degli anni ’90 rappresenta una specie di extrema ratio dettata da esigenze ben più stringenti e poco ‘artistiche’. Va osservato però che, da cineasta creativo qual era, per questo suo ritorno all’hard Massaccesi decise di non subire un mercato votato a video all sex privi delle benché minima cifra cinematografica, perseverando nel voler trovare una formula in cui continuare a garantire al prodotto una storia, per quanto limitata, con l’ausilio di location suggestive in cui dar libero sfogo alle inevitabili scene di sesso di ampio minutaggio. Osserva ancora il nostro: ‘Secondo me sono cambiati veramente i gusti del pubblico (…) Prima io avevo fatto delle storielle, adesso invece il pubblico, se non gli dai una sequenza hard lunga quanto il film, non si diverte’. Il problema risiede evidentemente nel non ‘subire’ una formula ormai già in largo uso da parte di pornografi ben inseriti in questo mercato cercando piuttosto di ‘crearsi’ una propria tipologia di film dotati di quelle ‘storielle’ tanto care al primo D’Amato, opportunamente riviste e corrette.
Optando ancora per la pellicola al posto del già dilagante supporto videotape, nasce allora l’iniziativa di girare delle ‘porno avventure’ recuperando noti titoli di cassetta da ‘hardizzare’. Una sorta di parodie di film già famosissimi se vogliamo, dove per ‘parodia’ non si deve intendere solo imitazione satirica, quanto piuttosto libera rivisitazione della storia in chiave pornografica. Ecco dunque il dittico ‘Tarzan X - Shame of Jane’ (1993) e ‘Tarzan 2 - Il Ritorno del Figlio della Giungla’ (1994), due lavori ben rappresentativi del nuovo corso hard massaccesiano: ‘Per “Tarzan” sono andato in Kenia - ricorda Aristide ad Antonio Tentori - ci sono gli elefanti e tante altre cose (…) non è il solito squallido film con la scopata dall’inizio alla fine, ma uno prova a fare un film vero’ Fermo restando che da ora in avanti la componente sessuale dei prodotti del regista sarà come un lungo flusso ginnico senza soluzione di continuità, c’è da dire che nei ’Tarzan’ Aristide utilizza due tra i migliori attori e performer hard che poteva trovare, ovvero Rocco Siffredi e l’ungherese Rozsa Tassi ribattezzata Rosa Caracciolo. L’intesa e la chimica erotica tra i due è perfetta, il che rende i film perfettamente riusciti. Lo stesso D’Amato non manca di elogiarne le qualità ‘amatorie’ e umane: ‘Rocco Siffredi è quello che rende (…) un professionista, uno con cui puoi lavorare. Ti puoi permettere pure di farlo correre, ridere, parlare, perché in fondo Rocco è bravino. Rosa Caracciolo è proprio bella e anche molto brava (…) ha fatto solo hard (…) ma potrebbe fare altre cose’. Ancora a proposito di Rosa, il regista pare avere le idee chiare: ‘E’ l’unica che potrebbe fare l’attrice anche furi dal porno. L’unica che ha le chances giuste per poter essere un’attrice vera’. Questo ‘porno Tarzan’ provoca un grosso rumore mediatico, arrivando addirittura ad ‘offendere’ gli eredi del creatore del personaggio del vero Tarzan: Venerdì 9 Agosto 1996 Il Corriere della Sera titola infatti ‘Porno Tarzan: furiosi gli eredi di Burroughs’. Nel pezzo si legge ‘Tarzan dipinto come un insaziabile mandrillo, impegnato con la partner Jane in acrobazie sessuali (…) E’ il soggetto di un film porno del regista Joe D’Amato (…) contro il quale sono insorti gli eredi del creatore di Tarzan, Edgar Rice Burroughs (morto nel ’50), avviando un’azione legale contro autori e produttori e chiedendo un risarcimento, lo stop alla distribuzione e la distruzione di tutte le copie’.

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Ma l’esplorazione di epoche e mondi lontani da contestualizzare in chiave hard è appena iniziata e non conosce cedimenti. Nel 1994 D’Amato/Massaccesi realizza in coregia con Luca Damiano ‘Marco Polo La Storia mai Raccontata’, in cui ad affiancare Rocco ci sono bellezze del calibro di Simona Valli, Tabatha Cash e Julia Chanel: è il trionfo delle pornostar francesi e ungheresi, che forniscono scene hard passionali impreziosite dalla presenza di costumi e orpelli vari per suscitare un immaginario esotico, lontano e, al netto delle performances sessuali, ancora più eccitante. In ‘The Erotic Adventures of Aladdin’ abbiamo la sagace trovata di una scena hard ripresa ‘dall’interno’ della vagina di Simona Valli, una ‘soggettiva della figa’ penetrata dalla lingua di Christopher Clark. Stessa sorte tocca poi al buco anale ‘visitato dall’interno’, piccoli giochi all’insegna di uno humor da interporre alle maratone sessuali che costituiscono com’è logico la maggior parte dei film. ‘Il Marchese De Sade.- Oltre Ogni Perversione’ è un saggio dell’assolutismo sessuale di Rocco Siffredi, che in pellicole come questa ostenta quella instancabile possenza che caratterizzerà a tutti gli effetti lo stile registico del suo ‘gonzo’ e va detto, senza facile ironia, che per un regista di pretese limitate, vista la materia di cui parliamo, il poter usufruire di un performer simile fa sì che il film sia bello che pronto. Basta dar libero sfogo allo stallone di Ortona e riprendere le performance col giusto piglio ‘documentaristico’, rendendo conto di penetrazioni e dettagli genitali attraverso una moltiplicazione di punti di vista/angolazioni di ripresa che imprimano all’azione un certo dinamismo.
La partnership D’Amato - Damiano diventa assai ricorrente in questo periodo, perché conveniente a entrambi: l’usufruire di una location importante permetteva infatti la realizzazione di uno svariato numero di film ‘a tema’ che andavano così ad arricchire il mercato con diversi titoli coevi girati sia dall’uno che dall’altro. Ricorda a questo proposito Francesco Malcom: ‘Entrambi (D’Amato e Damiano, nda) giravano delle parodie. Damiano era sul filone più divertente, stile parodia delle favole: lui faceva porno per il suo divertimento ed era un po’ factotum…D’Amato era orientato più sul remake storico, ad esempio i vari ‘Antonio e Cleopatra’, ‘Fuga di mezzanotte’…D’Amato faceva tutti film belli e importanti. Poi Damiano usava la stessa location, cambiava i costumi e ne ricavava 3, 4 film arrangiati ma sempre di buon livello’. Una vera e propria catena di montaggio dunque, che garantiva continuità in quantità e qualità: si pensi al dittico ‘Decamerone X’, un tributo in salsa porno a quel decamerotico di settantiana memoria che Aristide ha spesso rispolverato anche nella sua produzione soft come abbiamo già visto, per proseguire con ‘Le Mille e Una Notte’

Se ne ‘Il Barone Von Masoch’ si propone ‘alla buona’ un’estetica SM che si risolve di fatto con un porno generalista ‘incattivito’ dal commento audio che vorrebbe evidentemente dare l’idea di una convivenza tra piacere e dolore, è da rimarcare come Massaccesi non trae ispirazione solo da storie in costume ma guarda anche al cinema del recente passato. E’ il caso di ‘Fuga di Mezzanotte/ Fuga all’Alba’ (o ‘Midnight Obsession’), che prende spunto dall’omonimo capolavoro girato nel 1979 da Alan Parker per creare un ‘porno dramma’ carcerario con protagonista Anita Rinaldi. Nell’ispezione anale della secondino ai danni di Anita si respira l’aria dei WIP (Women in Prison), corrente cinematografica di genere che ebbe larga diffusione una ventina d’anni prima dell’anno di cui stiamo parlando (1995): una pellicola che ci riporta al concept ‘sex&violence’ a cui prende parte Erika Bella, altra fascinosa ungherese dai tratti mediterranei. Erika Rakoscy - questo dovrebbe essere il suo vero nome - è sempre presente negli altri due WIP girati in quello stesso anno da D’Amato: parliamo di ‘Le Bambole del Fuhrer’ e ‘Penitenziario Femminile’, lavori la cui realizzazione è lecito pensare sia avvenuta in tempi più o meno contemporanei. A fronte di questi episodi i cui titoli potrebbero far pensare ad una rivisitazione degli eros svastica degli anni ’70 ma che in realtà si rivelano veri e propri all sex con brevi intermezzi narrativi di raccordo girati in modo anonimo, ecco che ‘il porno in costume’ arriva nuovamente a salvare ed esaltare la creatività di Aristide con ‘Amadeus Mozart’, film in cui il regista utilizza il ralenti in alcune scene di cumshot al suono di una musica piuttosto leziosa che, più che a Mozart, fa pensare ad un Rondò Veneziano da bancarella. Ci consola la presenza dell’ennesima bellissima pornostar ungherese, Deborah Wells, che troviamo anche in ‘Le 120 Giornate di Sodoma’ (conosciuto anche come ‘120 Days of the Anal’ o ‘Anal Palace’) in cui le geometrie delle posizioni assunte da Sean Michaels e Mark Davis con le varie Kelly Trump, Anita Blond e della già citata Wells - opportunamente imparruccate per l’occasione - vengono addolcite da una cura fotografica che ci è sembrata più attenta e suggestiva rispetto ad altri episodi.
’Torero’ (1996) è una buona vetrina per constatare quanto la bella presenza di Rocco Siffredi sia idonea ad un matador in costume appunto, piacevole anche l’idea di utilizzare delle scene di repertorio per rappresentare i momenti ‘d’azione’ nell’arena di una corrida con occasionali stacchi di montaggio sui singoli personaggi, quando richiesto dalla trama. Sul fronte delle attrici è davvero notevole la presenza della brasiliana Olivia Del Rio, che introduce un modello di donna diverso dal consueto nelle varie produzioni di questo secondo periodo porno di D’Amato. La zoomata sulla carnosa bocca di Olivia che si gode un bacio di Rocco ad occhi socchiusi dopo una fellatio al minuto 25:18 è un gesto erotico a chiusura di un momento hard: scelta di sensibilità non comune in un contesto porno.

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Valutando l’impressionante mole di generi ‘hardizzati’, ci sembra che Massaccesi abbia realizzato con questo suo ritorno al porno una personale rivisitazione dell’intera storia del cinema in chiave hard: non poteva certo mancare il peplum, che paga pegno con un titolo altisonante quale ‘Le Fatiche Erotiche di Ercole’ (1997) in cui il protagonista è il nerboruto performer tedesco Hakan Serbes, presenza ricorrente nei D’Amato’s che stiamo considerando, tanto quanto l’ungherese Mike Foster a cui vengono affidati ‘Ulysses’ e ‘Olympus Refugee of Gods’. L’intento è quello di realizzare, nei limiti del budget possibile, dei film dalla confezione altisonante che facciano proprio della cifra stilistica paracinematografica il loro punto di forza rispetto al ‘porno per il porno’ sdoganato nel mercato americano. A tal proposito, Aristide dichiara a L’Unità che, rispetto ai prodotti americani, i suoi film sono ‘Più rifiniti. Non voglio certo fare l’autore, però molti americani girano in video e mostrano solo scene di sesso. Io giro in pellicola e cerco di mettere assieme uno straccio di trama’ (articolo di Mercoledì 14 Maggio 1997, nda). La storia del settore - oggi possiamo dirlo - purtroppo gli è andata contro, soppiantando l’amore per la qualità (uso della pellicola, permanenza di un format filmico) alla pratica dell’usa e getta. A maggior ragione vanno allora ricordati gli sforzi creativi perpetuati da Massaccesi, che come abbiamo già detto individua in Rocco Siffredi l’ideale punto di congiunzione tra efficenza pornoattoriale e figura da ‘film normale’ con le dovute capacità richieste. ‘Ho fatto una decina di film con Rocco Siffredi - continua Aristide - e secondo me sono i migliori in circolazione: hanno scenografie accurate, raccontano una storia, in più Rocco è un attore discreto oltre che un ottimo manager di se stesso’. Il regista si riferisce al ciclo di parodie che chiamano in causa il celeberrimo ‘Rocky’, ovvero ‘Rocco lo Stallone Italiano’ e ‘Rocco lo Stallone Italiano 2 - La Sfida’, (noti anche come ‘Boxer 1’ e ‘Boxer 2’) in cui oltre alle consuete prodezze sessuali con le varie Alexandra Silk (Boxer 1) e Lexi Leigh (Boxer 2) tra le altre, l’Italian stallion è chiamato a confrontarsi anche sul ring con il temibile Sean Michaels. L’epica della boxe è restituita con un drammatico crescendo fatto di dissolvenze incrociate a mostrare immagini di repertorio sul pubblico urlante alternate a brevi momenti dell’azione che si svolge nel quadrato, il tutto in un montaggio teso, serrato. E’ chiara qui la volontà di emulare la frenesia del tipico montaggio televisivo destinato agli eventi sportivi, con la telecamera che segue i contendenti da vicino cercando di coglierne le sfumature facciali, l’agonia e l’estasi della contesa: va detto che i due attori, Michaels e Siffredi, risultano assolutamente funzionali al gioco di Massaccesi.
Il 1996 è anche l’anno in cui il nostro Joe D’Amato gira un film con Selen, una delle massime protagoniste italiane dell’hard degli anni ’90. Si tratta di ‘Selvaggia’, film dominato dal fascino biondo di Luce (vero nome di Selen) e della tedesca Kelly Trump, protagoniste tra l’altro di un’intensa scena lesbo. Qui il regista ci pare forse troppo autocompiacente nell’eccessivo uso del ralenti durante le scene hard, pratica applicata non solo a fellatio e cumshot ma estesa alle penetrazioni tutte in maniera troppo invasiva. Decisamente meglio allora ‘La Regina degli Elefanti’, in cui ritorna il gusto per l’esotico/avventuroso calato in un contesto naturale suggestivo: il film è aperto dal lento incedere di Selen a cavallo di un elefante in un contesto naturale lussureggiante. Nella scena di cunnilingus di Zenza Raggi alla pornostar a cavalcioni su un tronco in piena foresta si riaffacciano vaghi echi dei momenti spinti nei film della stagione caraibica del 1980: al netto del nostro affetto per il primo D’Amato bisogna riconoscere che scene come questa sono nettamente superiori visto il maggior sex appeal dei performer, il coinvolgimento palesato e la regia che alterna movimenti avvolgenti e all’inevitabile documentarismo passivo delle impennate ritmiche delle penetrazioni colte in dettaglio. Tuttavia non sempre le ambizioni narrative trovano felice risoluzione: si prenda ad esempio ’Selen nell’Isola del Tesoro’ (1998), in cui, se l’ambientazione piratesca funziona dentro l’imbarcazione nelle varie scene di sesso, gli spezzoni in esterno che mostrano l’avanzare del veliero (con relativo saluto degli indigeni) risultano per così dire un po’ naïf. La premiata ditta Selen-Zenza Raggi (con la produzione esecutiva di Gianfranco Romagnoli) non sbaglia però un colpo, garantendo a ‘D’Amato location ed atmosfere adatte ad un’altra pellicola basata sul fascino di un ambiente ignoto a cornice delle evoluzioni pornografiche, ‘Sahara’.
Il ‘D’Amato’s touch’ non risparmia neppure il genere western, che trova ampia rilevanza ne ‘I Magnifici Sette/Outlaws’, in cui in apertura Rocco appare immortalato nel tipico manifesto ingiallito ‘Wanted - Dead Or Alive’ con un accompagnamento musicale degno dei migliori spaghetti western dei nostri anni ’70. Al polveroso bianco&nero dei titoli di testa si succedono com’è ovvio cavalcate di ben altra natura di quelle consone ad un normale ’film di pistoleri’, tanto che il saloon diventa più che altro un bordello in cui si succedono le prodezze delle varie Antonella Del Lago, Missy e Maria De Sanchez con Roberto Malone tra gli altri. L’americana Missy è il main character del dittico ‘Calamity Jane Sola Contro Tutti’ e ‘Calamity Jane 2’, in cui, giocando a carte, ripensa alle proprie audaci rapine in cui s’è anche tolta lo sfizio di sodomomizzare un malcapitato con la pistola (l’americano Mickey G.) occupandosi nel frattempo di Malone con un pompino…storie da selvaggio West, insomma.
Nel frattempo, un’altra bellezza ungherese viene iniziata all’hard da Riccardo Schicchi. Il suo nome è Eva Henger, biondissima (come nelle migliori tradizioni schicchiane del resto), volto dolce e fisico da modella: la sua per altro sparuta produzione porno la girerà per lo più con Joe D’Amato, che la prende a nuova musa proponendola in varie pellicole di quell’intenso 1998. In ‘Experiences’ in verità l’attenzione volge subito su Erika Bella, giunonica come sempre, stretta nell’avvolgente panino composto da Jean-Yves Le Castel, Mike Foster e Reinhardt, poi però la scena se la prende Eva, per la quale la macchina d presa di Aristide mostra una sorta di innamoramento: ne riprende in dettaglio gli occhi, indugia in ralenti sulla bocca e lei ricambia, rivolgendo lo sguardo direttamente verso l’obiettivo. E’ in frangenti come questo che il porno di D’Amato si impreziosisce di quella carica erotica che solo chi ha pratica di film soft può possedere. Il gioco di luci e ombre all’interno di quella che ci appare come una magione esalta le scene hard di questo film, che successivamente alterna altre location con la finalità prima di esaltare in un contesto glamour molto patinato la figura della Henger, anche in frangenti autoerotici. Il sequel ‘Experiences 2’ propone invece varie microstorie spinte trasmesse su un PC di fronte a cui Eva si eccita, masturbandosi. Da segnalare una di queste, ambientata en plan air in quella che sembra essere l’epoca vittoriana o qualcosa di simile: il giocoso rincorrersi dei protagonisti in costume è preludio ai libertini ‘convegni d’amore’. Discutibile, come sempre a mio avviso, l’ostinarsi ad eccedere nel ralenti durante totali e dettagli delle penetrazioni.
A nostro personale giudizio, ci pare che mai come nel trattamento filmico riservato ad Eva Henger sia emersa in passato la volontà di Aristide di far emergere non solo l’attrice colta in hardcore action, quanto la magnificenza della di lei figura, proponendone come detto prima una visione più erotica che banalmente hard. Forse il regista ha intravisto in lei potenzialità estetiche superiori a quelle delle tantissime pornostar con cui ha avuto a che fare, ecco spiegato il motivo di una maggiore indulgenza nel riprenderla, quasi reverenza verrebbe da dire.

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Eva del resto è a tutti gli effetti l’ultima ‘diva’ del cinema massaccesiano o damatiano che dir si voglia, quella con cui il nostro realizza nel 1998 l’ambizioso ‘Il Fantasma’, film tributo e rifacimento del romanzo ‘Il fantasma dell’Opera’ scritto da Gaston Leroux nel 1910. Purtroppo la vicenda viene introdotta in maniera visivamente scadente, in quanto Aristide si affida alla riproposizione di un filmato di pessima qualità della trasposizione cinematografica del testo, risalente al 1925. All’interno delle immagini scarsamente distinguibili inserisce la figura di Eva, come a voler sovrapporre il passato della maledizione del fantasma alla contemporaneità (Eva interpreta infatti il ruolo di una cantante lirica). Soluzione visiva davvero goffa quest’ultima, che non ci impedisce di apprezzare la scena di sesso di gruppo in cui la Henger si trova a ‘trattare’ i membri di numerose figure in tonaca nera e con volto nascosto da maschere richiamanti al carnevale veneziano. La collaborazione con Eva pare più salda che mai, tant’è che dopo questo film Aristide ne prepara un altro, ’Showgirl’. Ma non riesce a finirne il montaggio: il 23 gennaio 1999 Massaccesi viene a mancare. ‘Aristide era appena tornato da Las Vegas, dove era andato per girare “Show Girl” e presentare “Experience”. Sabato mattina (…) stava bene, sembrava. Ed invece appena arrivato a casa è stato colpito da un dolore fitto al torace’ a dirlo è l’amica di sempre Rossella Di Nardo in un articolo de Il Corriere Della Sera titolato ‘Addio al Re del porno in incognito’. Per una di quelle tragiche ciclicità a cui ci sottopone il destino, il regista viene stroncato da un infarto esattamente come ‘alla stessa età, era morto suo padre Renato che per mestiere affittava agli studi cinematografici le macchine da presa, i giocattoli di Aristide bambino’.
Molti quotidiani si occuparono della prematura scomparsa di Joe D’Amato, sottolineando pressoché unanimamente la sua fama e importanza nel settore hard. Se questo può apparire ingeneroso ci pare anche una mancanza comprensibile: un regista che negli ultimi 5 anni aveva operato nel porno a ritmi folli (si calcola una media di un film ogni due settimane visto che, come ricorda ne L’Unità, ‘film così si fanno in 8-10 giorni’) può correre il rischio di vedersi ricordato per le centinaia di hard prodotti, a fronte di pellicole horror ed erotiche altrettanto valide - anzi, di più - ma inevitabilmente lontane nel tempo e nella memoria. E’ altrettanto vero che, parallelamente alla produzione pornografica, Aristide continuò a girare anche dei ‘film normali’ optando spesso per il genere thriller (ricordiamo ‘Paura’ e ‘La iena’, entrambi ascrivibili al 1997, quest’ultimo con Cinzia Monreale, già presente nel cult ‘Buio Omega’) ma questo riguarda più i die hard fans che non il pubblico nella sua accezione più generalista.
Ritorniamo allora a ricordare Massaccesi nel pezzo del CorSera con le parole di Riccardo Schicchi: ‘Era un vero signore, cosa rara in questo mondo. Ed era talmente bravo che riusciva a montare un film dietro l’altro senza sbagliare uno’. Eva Henger invece ci rivela che ‘Il prossimo film avremmo dovuto girarlo a Cuba: Joe voleva intitolarlo “La Dolce Vita”, come quello di Fellini, perchè diceva che io assomigliavo ad Anita Ekberg’.

Ce l’hai un sogno nel cassetto?
Ho un’età, ormai, che non è che non abbia più un sogno, ma sono un po’…forse deluso, deluso da me, non da qualcosa in particolare (…)
Mi piace molto fare cinema, a prescindere. Ora dico che non mi piace, poi magari domani faccio pure un film porno con lo stesso entusiasmo che se facessi Indiana Jones’.


E allora ci vediamo al prossimo porno, Aristide. Anzi, al prossimo film: il genere sceglilo tu.

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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#4 Messaggio da Pieffe »

Complimenti vivissimi. Storia interessante, ben scritta e documentata.

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Joe D'Amato - Ricordando Aristide

#5 Messaggio da Alec Empire »

Ricordando Aristide

Laura Gemser

‘Secondo me Aristide è un attore nato, un attore comico, perchè c’ha questa faccia che quando ti parla ti fa immediatamente venire da ridere. All’epoca non capivo bene l’italiano, ma ogni volta che quest’omino buffo mi diceva qualcosa inevitabilmente scoppiavo a ridere.’

‘Lavorare con Aristide era un’avventura, lui faceva di tutto: il regista, il direttore della fotografia, il produttore…e l’attrice molto spesso doveva fare anche la costumista e la sarta (…) Mi faceva ridere tanto e ridere è importante. Lui aveva sempre addosso un’agitazione tale…era sempre in ansia e si dimenticava puntualmente tutto, la camicia, le scarpe…un casinista come pochi! Un grande professionista ma anche un grande disordinato. Quando si arrabbiava poi non ti dico…’

[Io e Gabriele Tinti] ci siamo conosciuti nel 1975 e ci siamo sposati l’anno dopo. Ci siamo sposati proprio su un set di Aristide, Emanuelle in America.’

‘Parlando di Paola [Senatore, nda] ricordo un episodio abbastanza buffo. In Emanuelle in America Gabriele doveva girare una scena d’amore proprio con lei. Ora, devi sapere che quando giravamo scene d’amore, io e Gabriele, l’altro, per rispetto e per non metterci in imbarazzo, se ne andava dal set. Quella volta avevamo architettato uno scherzo veramente pestifero ad Aristide (…) Paola si spogliò nuda e Gabriele doveva togliersi solo la camicia e abbracciarla. A un certo punto Gabriele si tolse anche i pantaloni e sotto indossava…un paio di mutande di pizzo di tutti i colori, giallo, rosso, blu…scoppiò il finimondo: Aristide si incazzò e cominciò a urlare: ‘Sai quanto mi costa ‘sta pellicola? Che fai, me la paghi tu?’

‘In quel film [’Top Model’, nda] avevo detto ad Aristide: ‘Mi raccomando, non mi far spogliare’ e lui: ‘Non si vede niente…non si vede niente’ e così girammo questa scena dell’orgia in cui io e Luciana Ottaviani, una ragazza molto carina e che era anche molto richiesta, dovevamo intrattenere due clienti e lì mi sono fatta veramente delle grosse risate. C’era un momento in cui mi sono ritrovata a cavalcioni sopra questo cow-boy e fin qui tutto bene, poi lui mi ha preso in spalla e la sottoveste ha cominciato a scivolare giù e io ad urlare: ’No! Il culo no!’ e Aristide incavolato nero: ‘Ma che ti strilli!?’

M.G.: Quando ho chiesto ad Aristide perché tu non hai mai girato scene porno lui mi ha risposto perchè avevi cervello. Se ne conclude che per girare scene hard non c’è bisogno di cervello…
‘Pensa che già consideravo troppo forti le scene che giravo io…’


(Frammenti dell’intervista di Manlio Gomarasca a Laura Gemser nel volume ‘Io Emanuelle’, 1997)

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marziano
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#7 Messaggio da marziano »

bellissimo.
vorrei vederlo il documentario.
La verginità è un ottima cosa perché capisci meglio cosa è vero e cosa invece è falso.

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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#8 Messaggio da Philipp Petzschner »

marziano ha scritto:
15/09/2021, 17:42
bellissimo.
vorrei vederlo il documentario.
è in replica questi giorni su Cielo.

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baroccosiffredi
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Daniele Massaccesi racconta Joe D’Amato

#9 Messaggio da baroccosiffredi »

Aristide Massaccesi è scomparso il 23 gennaio 1999 a 62 anni. Vent’anni dopo, ci siamo fatti raccontare dal figlio un’esistenza passata sui set dal post-atomico al softcore, dal gore al porno.

Alexandre Borsky, Robert Yip, Michael Wotruba, Arizona Massachuset, Peter Newton, Joan Russell, Dario Donati, Joe D’Amato, fanno tutti riferimento a unico nome, quello di Aristide Massaccesi, l’artigiano più prolifico del cinema bis italiano. Regista, direttore della fotografia (suo ruolo prediletto), produttore (assieme a Donatella Donati fondò la Filmirage, con la quale tenne a battesimo i debutti di Michele Soavi e Claudio Lattanzi dietro la mdp – il primo con Deliria, il secondo con Killing Birds) Massaccesi, scomparso il 23 gennaio 1999 a 62 anni, non ha mai cercato di trovare chiavi interpretative nei suoi lavori. Svolgeva il mestiere per la pagnotta (la consacrazione autoriale non gli interessava), come i film pornografici che realizzò in due tranche (da fine anni Settanta ai tardi Novanta) intervallati da incursioni nel post-atomico, nel softcore, nel gore, ma si cimentò anche col western, con la commedia scollacciata e col decamerotico. Quando morì, le pagine dei giornali lacrimarono con «è morto il re del porno», erroneamente. Certo, innegabili i titoli che hanno fatto la storia dell’hard, quelli con Mark Shanon (ovvero Manlio Cersosimo), Laura Levi, Annj Goren prima e con Selen, Eva Henger, Rocco Siffredi poi. Massaccesi però ne soffriva, perché non era solo il gotha delle luci rosse, bensì il trait d’union che accorpava i generi – tutti – della cinematografia italiana: un vero e proprio “sovrano degli artigiani” carico di poliedricità. E in occasione di questi vent’anni dalla sua dipartita, abbiamo incontrato il figlio Daniele

Partiamo dalle origini della tua famiglia: chi era tuo nonno, Renato Massaccesi?
Faceva parte del mondo della milizia, ma a causa di un incidente avvenuto in nave venne considerato invalido di guerra. Tornato a Roma iniziò a lavorare presso l’Istituto Luce quindi nel mondo del cinema, sia come elettricista che come acquirente di materiale tecnico. Sistemò diversi gruppi elettrogeni lasciati a Cinecittà dai soldati americani. Partecipò anche come figurante… Mi viene in mente Che gioia vivere di René Clement, dove compare in una scena accanto ad Alain Delon. Avendo iniziato a lavorare in questo ambiente portò con sé anche i suoi figli: Carlo, Fernando detto Nando e Aristide, mio padre. Siccome mio nonno affittava anche macchine da presa, affidò a mio padre, che era il figlio più intraprendente, le consegne da eseguire. E al contempo iniziò a lavorare come assistente operatore prima e direttore della fotografia poi.

Il salto alla regia come è avvenuto?
Be’, ripeto, mio padre era molto intraprendente. Il mestiere di direttore della fotografia, oltre a essere molto tecnico, è anche il ruolo più “attaccato” al regista. Per cui è stato quasi automatico questo passaggio, data la sua esperienza maturata.

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SCENEGGIATURA: Tutti i corsi in arrivo della Scuola di Cinema Sentieri selvaggi


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Cosa puoi dirmi del rapporto professionale tra Donatella Donati e Aristide?
Il padre di Donatella era il produttore Ermanno Donati e i primi film di mio padre li produsse proprio lui, nei quali Donatella ricopriva il ruolo di segretaria di produzione o assistente alla regia: si conobbero così. Successivamente il rapporto si rafforzò.

Diventando una coppia professionale molto bilanciata, essenziale…
Sì, mio padre si occupava della realizzazione concreta dei film e delle produzioni. Donatella, invece, era più legata alle pratiche amministrative e organizzative. Non potevano esistere l’uno senza l’altra: mio padre dal punto di vista gestionale era un disastro; Donatella uguale su quello artistico. Per cui erano entrambi coscienti dei loro limiti. Un rapporto di compensazione perfetto.

Parliamo della questione poliedrica dei generi cinematografici di Aristide.
Innanzitutto mio padre si è sempre definito un “artigiano” e mai “artista”, per cui realizzava tutti i film che gli venivano commissionati o richiesti. Quindi, in base alle sceneggiature e alla moda del momento, girava quello che c’era a disposizione. Causando anche idiosincrasie di settore tra lui e, magari, registi che si consideravano “artisti”
.
La riscoperta del cinema di genere, e quindi anche quello di tuo padre, la possiamo ricondurre a una forma nostalgica di quei tempi?
Erano prodotti che, anche con poche risorse economiche, mantenevano fede alla componente drammaturgica e al discorso filmico. Si riusciva, bene o male, a esprimere sempre una chiave di lettura verso la storia raccontata. Oggi, quando riguardo un film di quel periodo, resto affascinato da queste caratteristiche.

Lui stesso dichiarò che i film pornografici che realizzava, seppur per questioni

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IL NUOVO SENTIERISELVAGGI21ST #9


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“alimentari”, mantenevano uno svolgimento logico di trama e di senso compiuto.
Nonostante li abbia diretti per quelle esigenze, gli risultava comunque difficile “staccarsi” dalle regie narrative precedenti. Ed è anche per questo che le sue produzioni a luci rosse hanno un certo scheletro narrativo. Applicava le regole di una normale pellicola a quelle di stampo pornografico: c’era, comunque, un minimo di trama per scandire il passaggio da un atto sessuale all’altro e una minima dose di sceneggiatura. Magari parodiando pure film famosi.
Infatti Aristide ha sempre avuto questo propensione al rifacimento, penso alla quadrilogia dell’eros decadente stile La chiave o ai fantasy-avventurosi come Ator l’invincibile.
Ator gli fu commissionato da un produttore americano che, dopo l’uscita di Conan il barbaro, stava cercando il “nuovo” Arnold Schwarzenegger e lo trovò in Miles O’Keeffe reduce dal Tarzan con Bo Derek. Mio padre, sicuramente, cavalcava l’onda del genere. Quando Tinto Brass diresse La chiave fu rispolverato un certo tipo di cinema erotico e sfruttò questa piega realizzando tutta quella serie dedicata all’erotismo d’annunziano con Jenny Tamburi, Lilli Carati e Laura Gemser: Voglia di guardare, Lussuria, Il piacere e L’alcova. Oppure quando uscì 9 settimane e mezzo di Adrian Lyne girò Eleven Days, Eleven Nights… Purtroppo riteneva di non essere originale, però era un bravo imitatore: si dice che gli artisti siano i più bravi a copiare, per cui riusciva a carpire il meglio dagli altri e lo riproduceva.

Una peculiarità che non sempre risulta difetto.
Il cinema è un’arte particolare, realizzare un film ha un costo non indifferente e la parte economica viene, spesso e volentieri, non considerata da chi fruisce l’opera mostrata. Mio padre era abile nel far coincidere l’aspetto monetario con quello artistico all’interno delle sue produzioni, anche se, come ho già detto, lui denigrava il fatto di non essere originale.

Però qualcosa di originale l’ha realizzata…
Certo, in ogni caso erano film diretti con pochi mezzi, ma avevano una sceneggiatura alla base con un significato: il fatto che nel finale di Antropophagus il mostro mangi le proprie budella non è solo puro splatter fine a se stesso, cosa che invece veniva etichettata a priori dalla critica appena leggeva il suo nome in locandina o nei titoli di testa. Per questo tendeva sempre a firmarsi con pseudonimi, per aggirare una forma di pregiudizio verso il suo modo di fare cinema.

Il genere erotico era la sua vera passione.
Era molto abile a creare situazioni “carnali” dal punto di vista registico e fotografico. Un film di stampo erotico necessita di certe atmosfere e lui era capace di ricrearle divertendosi, perché stimolato nella ricerca e nella realizzazione di quel tipo di racconto.

Quando tuo padre è scomparso, i quotidiani titolarono: “È morto il re del porno”. Ha sofferto per questo appellativo?
Non era contento di essere etichettato come “re” della pornografia perché Aristide Massaccesi non era solo quello… Sicuramente era il settore più eclatante e quindi a molti faceva comodo ricordarlo in quella maniera per via di certe élite cinematografiche che non volevano i loro nomi accostati al suo. E comunque credo che abbia girato più film “normali” che porno…

Quando hai iniziato a lavorare con tuo padre?
Iniziai con Deliria di Michele Soavi, prodotto da mio padre, facendo l’aiuto operatore. Ma frequentavo i set già da piccolo, ovviamente la mia presenza c’era solo quando si giravano scene “normali”. Lui mi diceva: «Non fare lo stesso errore che ho fatto io, rimani a fare l’operatore della fotografia». Da regista però ho già diretto un cortometraggio, per cui mai dire mai…

Hai collaborato, tra i tanti, con Ridley Scott, Anthony Minghella, Steven Spielberg, Ron Howard, Woody Allen, le sorelle Wachowski: dal cinema di genere italiano a quello hollywoodiano per antonomasia.
Da quel punto di vista ho seguito le orme di mio padre perché ho preso parte a qualunque genere di film, tra cui anche due cinepanettoni. Sono, come si definiva pure lui, un “artigiano eclettico”. Quello che mi viene chiesto di fare lo faccio, sempre nel miglior modo possibile. Infatti, mi hanno proposto di scrivere un libro: «Da Steven Spielberg a Neri Parenti in quattro facili mosse» (ride, nda).

https://www.sentieriselvaggi.it/daniele ... oe-damato/

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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#10 Messaggio da Salieri D'Amato »

Interessante questa intervista recuperata da Barocco. Sarei curioso di vedere anche il figlio all'opera con qualche film di genere.
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#11 Messaggio da Alec Empire »

Bellissima intervista che dice molto del Massaccesi uomo e regista. Secondo me, figure come la sua sono state un po’ vittime di quegli inevitabili passaggi di consegne tecniche, tematiche e commerciali insite nel mondo del cinema. La sua è una figura epica, essendo stato presente per decenni in un settore così complesso forte di una capacità di barcamenarsi assai rara. Anche perché, come giustamente si fa notare, non si sentiva (e non era) un artista, bensì un abile e puntiglioso artigiano che cause di forza maggiore hanno portato a trattare a piene mani una materia ‘ingrata’, almeno stilisticamente parlando.
Sulla discriminazione del D’Amato regista in quanto pornografo senz’altro sarà così, però ne resto convinto fino ad un certo punto. Voglio dire, basandosi solo sulla sua produzione di genere, quindi dall’horror all’erotico, non è che ci siano capolavori degni dell’eternità: esistono film importanti, sono il primo a dirlo, ma al contempo discutibili. Non è l’hard a fare da discriminante netto nel suo percorso registico. Paradossalmente, io continuo a pensare che l’apice della sua filmografia sia da ricercarsi proprio in quel ‘Sesso Nero’ che è coniugazione prima di porno e thrilling. Credo che, se qualche collega di D’Amato non lo ha avuto in simpatia, è perchè, oggettivamente, il mercato in cui il regista si è trovato ad operare è un mercato di serie B con prodotti di media qualità invisi a determinati contesti. Il suo è un caso come tantissimi altri.
Per essere ancora più chiari, è assurdo che, oggi, si dispensino riconoscimenti ‘a prescindere’ a più o meno tutti gli esponenti del cinema bis settantiano tanto quanto era assurdo, a suo tempo, l’oscurantismo con cui i film di questo tipo venivano censurati, tagliati ed esclusi dalle rotazioni televisive. In media stat virtus: parliamo di opere interessanti ed abili uomini di cinema, non geni né guitti, non santi né demoni. La loro peculiarità risiede proprio nell’assenza di ‘doti alte’, nell’essere ‘cinematografari’ con qualcosa da dire e, spesso, mezzi limitati per dirlo. E’ qui che esce fuori la creatività, nell’arte di arrangiarsi al di là della mancanza di originalità.
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#12 Messaggio da Salieri D'Amato »

Alec Empire ha scritto:
14/11/2021, 11:14
Bellissima intervista che dice molto del Massaccesi uomo e regista. Secondo me, figure come la sua sono state un po’ vittime di quegli inevitabili passaggi di consegne tecniche, tematiche e commerciali insite nel mondo del cinema. La sua è una figura epica, essendo stato presente per decenni in un settore così complesso forte di una capacità di barcamenarsi assai rara. Anche perché, come giustamente si fa notare, non si sentiva (e non era) un artista, bensì un abile e puntiglioso artigiano che cause di forza maggiore hanno portato a trattare a piene mani una materia ‘ingrata’, almeno stilisticamente parlando.
Sulla discriminazione del D’Amato regista in quanto pornografo senz’altro sarà così, però ne resto convinto fino ad un certo punto. Voglio dire, basandosi solo sulla sua produzione di genere, quindi dall’horror all’erotico, non è che ci siano capolavori degni dell’eternità: esistono film importanti, sono il primo a dirlo, ma al contempo discutibili. Non è l’hard a fare da discriminante netto nel suo percorso registico. Paradossalmente, io continuo a pensare che l’apice della sua filmografia sia da ricercarsi proprio in quel ‘Sesso Nero’ che è coniugazione prima di porno e thrilling. Credo che, se qualche collega di D’Amato non lo ha avuto in simpatia, è perchè, oggettivamente, il mercato in cui il regista si è trovato ad operare è un mercato di serie B con prodotti di media qualità invisi a determinati contesti. Il suo è un caso come tantissimi altri.
Per essere ancora più chiari, è assurdo che, oggi, si dispensino riconoscimenti ‘a prescindere’ a più o meno tutti gli esponenti del cinema bis settantiano tanto quanto era assurdo, a suo tempo, l’oscurantismo con cui i film di questo tipo venivano censurati, tagliati ed esclusi dalle rotazioni televisive. In media stat virtus: parliamo di opere interessanti ed abili uomini di cinema, non geni né guitti, non santi né demoni. La loro peculiarità risiede proprio nell’assenza di ‘doti alte’, nell’essere ‘cinematografari’ con qualcosa da dire e, spesso, mezzi limitati per dirlo. E’ qui che esce fuori la creatività, nell’arte di arrangiarsi al di là della mancanza di originalità.
Sposo quasi in pieno le tue tesi sul cinema di genere. Ma farei alcune puntualizzazioni.

Il cinema di D'Amato e tutto quello cosidetto bis, non ha sfornato che prodotti che vanno dal molto valido alla ciofeca immonda, con rare eccezioni di quasi capolavori o film perfettamente confezionati.
Questo a mio avviso è dovuto a 2 fattori: il primo, detto e stradetto, è che i mezzi erano limitati e con essi quindi avevamo attori di terzo piano o veri e propri cani, fotografia di serie B, sceneggiature spesso senza capo ne coda o comunque piene di buchi, montaggio alla proviamo così tanto cambia poco, costumisti e truccatori dopolavoristi e soprattutto tempi di lavorazione compressi ai minimi termini, spesso in 15/30 giorni si doveva terminare di girare il film. Converrai che anche per un Kubrik sarebbe difficile sfornare capolavori in queste condizioni, lui che oltre ad avere cast e tecnici di primordine aveva tempi di lavorazione lunghissimi.
Il secondo punto è che gli stessi registi che si cimentavano nel cinema bis erano registi con poco talento o senza ambizioni stilistiche, solo in rari casi erano registi che amavano fare generi non riconosciuti dall'allora cinema "alto". Spesso anche film di culto lo sono diventati per l'originalità o per un paio di scene iconiche o per la crudezza delle scene o per la bellezza delle protagoniste o per un'interpretazione sopra le righe ... e non certo per la grandezza del regista. Per dire, lo stesso Argento non è a mio avviso un grandissimo regista nel termine più inclusivo del termine, il successo è dovuto essenzialmente ad aver trovato il filone giusto (thriller o giallo all'italiana), storie semplici ma crude e ricche di violenza esplicitata delle scene, alle colonne sonore azzeccate e ai titoli strani ed evocativi; prova ne è che a distanza di anni lui, quando è ormai un riconosciuto "maestro", fa La terza madre, con un budget superiore a quello dei suoi primi film ed effetti speciali immensamente migliori, tecnicamente è un film superiore ai precedenti ma con gli stessi difetti, compresa una sceneggiatura debole (in questo caso anche schizofrenica), ma viene percepito da tutti come una cagata.

Diciamo quindi che i registi che hanno saputo imporsi e creare film indimenticabili sono quelli che hanno saputo raccontare storie e personaggi iconici, che hanno saputo creare un sense of wonder, ma soprattutto stimolare visivamente le nostre ossessioni, paure e voyerismo, a prescindere dalla validità intrinseca del film prodotto. Boiate come Cannibal holocaust sono film di culto, anche per me.

In definitiva pochi sono stati i registi veramente validi del cinema di genere, che quando hanno avuto tra le mani budget un pochino più alti e qualche attore discreto, hanno sfornato ottimi film da tutti i punti di vista. Rimanendo all'Italia citerei soprattutto Di Leo, Fulci, Sollima, Corbucci, Castellari. D'Amato è molto probabilmente un gradino sotto come dici, artigiano più che artista, anche se a me restano nella memoria in particolare gli Emanuelle, vuoi per il fascino della Gemser, per le colonne sonore o chissà che altro.
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#13 Messaggio da Alec Empire »

Salieri D'Amato ha scritto:
15/11/2021, 2:57
Sposo quasi in pieno le tue tesi sul cinema di genere. Ma farei alcune puntualizzazioni.

Il cinema di D'Amato e tutto quello cosidetto bis, non ha sfornato che prodotti che vanno dal molto valido alla ciofeca immonda, con rare eccezioni di quasi capolavori o film perfettamente confezionati.
Questo a mio avviso è dovuto a 2 fattori: il primo, detto e stradetto, è che i mezzi erano limitati e con essi quindi avevamo attori di terzo piano o veri e propri cani, fotografia di serie B, sceneggiature spesso senza capo ne coda o comunque piene di buchi, montaggio alla proviamo così tanto cambia poco, costumisti e truccatori dopolavoristi e soprattutto tempi di lavorazione compressi ai minimi termini, spesso in 15/30 giorni si doveva terminare di girare il film. Converrai che anche per un Kubrik sarebbe difficile sfornare capolavori in queste condizioni, lui che oltre ad avere cast e tecnici di primordine aveva tempi di lavorazione lunghissimi.
Il secondo punto è che gli stessi registi che si cimentavano nel cinema bis erano registi con poco talento o senza ambizioni stilistiche, solo in rari casi erano registi che amavano fare generi non riconosciuti dall'allora cinema "alto". Spesso anche film di culto lo sono diventati per l'originalità o per un paio di scene iconiche o per la crudezza delle scene o per la bellezza delle protagoniste o per un'interpretazione sopra le righe ... e non certo per la grandezza del regista. Per dire, lo stesso Argento non è a mio avviso un grandissimo regista nel termine più inclusivo del termine, il successo è dovuto essenzialmente ad aver trovato il filone giusto (thriller o giallo all'italiana), storie semplici ma crude e ricche di violenza esplicitata delle scene, alle colonne sonore azzeccate e ai titoli strani ed evocativi; prova ne è che a distanza di anni lui, quando è ormai un riconosciuto "maestro", fa La terza madre, con un budget superiore a quello dei suoi primi film ed effetti speciali immensamente migliori, tecnicamente è un film superiore ai precedenti ma con gli stessi difetti, compresa una sceneggiatura debole (in questo caso anche schizofrenica), ma viene percepito da tutti come una cagata.

Diciamo quindi che i registi che hanno saputo imporsi e creare film indimenticabili sono quelli che hanno saputo raccontare storie e personaggi iconici, che hanno saputo creare un sense of wonder, ma soprattutto stimolare visivamente le nostre ossessioni, paure e voyerismo, a prescindere dalla validità intrinseca del film prodotto. Boiate come Cannibal holocaust sono film di culto, anche per me.

In definitiva pochi sono stati i registi veramente validi del cinema di genere, che quando hanno avuto tra le mani budget un pochino più alti e qualche attore discreto, hanno sfornato ottimi film da tutti i punti di vista. Rimanendo all'Italia citerei soprattutto Di Leo, Fulci, Sollima, Corbucci, Castellari. D'Amato è molto probabilmente un gradino sotto come dici, artigiano più che artista, anche se a me restano nella memoria in particolare gli Emanuelle, vuoi per il fascino della Gemser, per le colonne sonore o chissà che altro.
Argomento tramite video le tue valide considerazioni, perchè se mi metto a scrivere a riguardo non credo di farcela entro un mese :wink:

Sul cinema di genere


Su D'Amato


Su Dario Argento
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#14 Messaggio da Salieri D'Amato »

Cavolo, alla faccia della risposta esaustiva, hai fatto quasi un trattato di cinema.

Mi hai fornito anche alcuni spunti da approfondire. Tipo Scavolini, di cui avevo visto il dimenticabile Nightmare mentre non sono mai riuscito a trovare, ai tempi in cui compravo molti dvd di cinema di genere, Un bianco vestito per Marialè, di cui avevo sempre sentito parlare bene.

Personalmente alcuni film e alcuni registi io non avrei pensato di inserirli nel cinema bis o di genere, che invece ho sempre pensato fosse molto commerciale sia pure per platee circoscritte. Come Scavolini, altri da te citati, o Cavallone di cui avevamo discusso in passato, li avrei considerati registi (o almeno parte dei loro film) fuori dagli schemi, liberi quindi anche dalle classificazioni, non solo dai limiti imposti del mainstream. Autori concettuali non riconosciuti dalla critica ufficiale o troppo di difficile codificazione per un pubblico più vasto da quello di nicchia.

E mi trovo, dopo la tua accurata e accorata disamina di Argento, di cui beninteso ho anche io amato gran parte dei suoi film, a doverlo rivalutare come maestro di regia, non solo di aver riscritto o inventato un genere; d'altronde cosa è un regista, se non quello che riesce ad incastrare tutti i pezzi del film al posto giusto.

Quando parli dei 3 registi capisaldi del thriller-horror, dopo Argento e Fulci mi sfugge il terzo; mi aspettavo un Mario Bava, ma mi sembra tu dica un altro nome, chi è?


Non è forse il topic adatto, ma sarebbe interessante discutere di cinema di genere italiano, magari chiedendoti nei vari genere quali sono i migliori film o gli imprescindibili. Io, pur essendone un estimatore, non ho certo la tua cultura e conoscenza della materia, per cui una guida illuminata sarebbe ben accetta. Pensa che ho ancora una marea di dvd, anche di un certo pregio, da visionare, senza decidermi mai a farlo. Andrebbe forse aperto un topic apposito.


PS: nota personale, apprezzo tantissimo la tua verve e la passione che traspira dai filmati postati, E detto per inciso, hai una bella faccia, o meglio, per evitare insinuazioni forumistiche,dal tuo volto e dalla tua espressione ricevo l'immagine di una bella persona.
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Re: Joe D'Amato - Uno Nessuno Centomila

#15 Messaggio da Alec Empire »

Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
Cavolo, alla faccia della risposta esaustiva, hai fatto quasi un trattato di cinema.
E parlando c’ho messo solo - quanto, mezz’ora? - in sede di scrittura mi ci sarebbero volute settimane e il punto è quello…per fare ragionamenti approfonditi - i soli che amo fare - ci vuole parecchio tempo. Ecco perchè certe volte il video paga, essendo più diretto e fast :wink:
Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
Mi hai fornito anche alcuni spunti da approfondire. Tipo Scavolini, di cui avevo visto il dimenticabile Nightmare mentre non sono mai riuscito a trovare, ai tempi in cui compravo molti dvd di cinema di genere, Un bianco vestito per Marialè, di cui avevo sempre sentito parlare bene.
E’ vero, si potrebbe considerarli registi ai margini a tutti gli effetti. Forse la consuetudine nel farli rientrare nel cinema di genere, più o meno forzata, è dovuto al fatto che, volenti o nolenti, alla fine dovevano servirsi di quegli stessi attori già inseriti in contesti ‘Bis’ e quindi noti appunto in questo settore.
Non v’è dubbio che un Cavallone o uno Scavolini avessero velleità ‘altre’, che certo non hanno sviluppato a dovere causa mancanza di interpreti credibili. Oddio, non è che poi le loro idee fossero proprio chiarissime o ‘nazional popolari’, per capirsi…si tratta di un’autorialità schiva e di difficile intuizione, volutamente simbolica. E proprio il simbolismo, oltre alle avanguardie pittorico-cinematografiche degli anni 20/30, sono l’ambito da cui prendono ispirazione figure quali Scavolini ma anche Mario Schifano, Alberto Grifi, Piero Bargellini, Paolo Gioli, Gianfranco Baruchello e altri, che, a differenza di uno Scavolini, non si sono poi avvicinati all’industria rimanendo puri sperimentatori di forme e contenuti. Questa parte del cinema d’avanguardia è molto interessante, include figure trasversali quali Patrizia Vicinelli, poetessa/scrittrice/videomaker di grande sensibilità (al cinema la puoi ricordare giusto in ‘Amore Tossico’ - è una ragazza che si buca nella vena della mano in una scena col protagonista Cesare Ferretti). In alcuni filmati girati da un Grifi sotto gli effetti dell’acido, la vediamo in compagnia di amici a casa, totalmente nuda, discorrere e fumare tranquillamente in salotto. Tutte situazioni, queste, e persone, e lavori cari a Marco Ferreri, il grande maledetto del cinema italiano. Una personalità unica e controcorrente che già vedeva e filmava ‘il marcio’ comportamentale dell’Italia del boom economico.
Come vedi, andrei avanti a decenni a scrivere di questo perchè rappresenta anche uno dei miei principali filoni di interesse personale…
Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
E mi trovo, dopo la tua accurata e accorata disamina di Argento, di cui beninteso ho anche io amato gran parte dei suoi film, a doverlo rivalutare come maestro di regia, non solo di aver riscritto o inventato un genere; d'altronde cosa è un regista, se non quello che riesce ad incastrare tutti i pezzi del film al posto giusto.
Argento è stato talmente grande e originale che ogni sua caduta di stile fa più rumore che per altri, sicuramente. A partire dagli anni Novanta le sue produzioni sono mediocri, fondamentalmente per un approccio quasi svogliato secondo me. Oltre ad una consunzione di idee che lascia in effetti basiti.

Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
Quando parli dei 3 registi capisaldi del thriller-horror, dopo Argento e Fulci mi sfugge il terzo; mi aspettavo un Mario Bava, ma mi sembra tu dica un altro nome, chi è?
In realtà è Avati, coraggioso e originale nel trovare una via padana - e quindi profondamente italiana - al thriller/horror settantiano con capolavori quali ‘La casa dalle finestre che ridono’ e successivamente ‘Zeder’. Il suo è stato un approccio personale, laddove registi per altro discreti imitavano il modello argentiano e su di esso hanno costruito intere carriere.
Certo, se consideriamo titoli quali ‘Reazione a catena’ e soprattutto il ghost movie ‘Shock’ non si può che elogiare l’operato dell’ultimo Mario Bava - qui coadiuvato dal figlio Lamberto. Nella sua produzione precedente, horror s’intende, non so, non ravviso molta ‘italianità’. Ci sono titoli archetipi, senza dubbio (‘Sei donne per l’assassino’ ma ancor prima ‘La ragazza che sapeva troppo’ mi piacciono molto). Lo vedo però, Bava, ancorato ad un fare ‘gotico’ che col passare degli anni viene soppiantato da istanze e nomi di maggior impatto visivo ed emotivo. Ecco perchè forse lo valuto titolare di un’eredità cinematografica importante ma più datata di altri.
Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
Non è forse il topic adatto, ma sarebbe interessante discutere di cinema di genere italiano, magari chiedendoti nei vari genere quali sono i migliori film o gli imprescindibili. Io, pur essendone un estimatore, non ho certo la tua cultura e conoscenza della materia, per cui una guida illuminata sarebbe ben accetta. Pensa che ho ancora una marea di dvd, anche di un certo pregio, da visionare, senza decidermi mai a farlo. Andrebbe forse aperto un topic apposito.
Quando c’è da parlare di cinema sono sempre disponibile, qui come altrove. Il punto è che amo farlo - come avrai visto in video - in un modo molto dialogico, forse per deformazione professionale. Oggi come oggi mi piace molto affrontare temi cinematografici e autoriali, fare analisi critiche, recensire…mantenere un approccio umano e non enciclopedico, cosa che ho fatto in passato anche per mestiere.
Salieri D'Amato ha scritto:
16/11/2021, 2:00
PS: nota personale, apprezzo tantissimo la tua verve e la passione che traspira dai filmati postati, E detto per inciso, hai una bella faccia, o meglio, per evitare insinuazioni forumistiche,dal tuo volto e dalla tua espressione ricevo l'immagine di una bella persona.
Ti ringrazio molto, ‘cambiano i venti io resto me’ fa un verso di un vecchio pezzo (mediocre) dei Timoria. Quel che si vede sono io, nel bene e nel male.
Non parlo con le pedine (Kyrie Irving)
Io mi limito a giocare a basket e lascio che Dio faccia il resto (Michael Beasley)
In rete c’è troppo di tutto ed è meglio “spegnere” ogni tanto (Fabban)

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