Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Se volete lasciare il vostro autografo...
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
In tema politically correct ho letto di questo termine dirtbag left e mi sembra interessante, soprattutto per togliere un po' di slancio all'estrema destra che negli ultimi tempi, grazie appunto ai livelli perversi raggiunti dal p.c., ha un po' troppo monopolizzato il fronte di lotta allo stesso.
Che io ritengo sempre piu' giusta (la lotta la p.c.), ma appunto se la fanno i trumpiani ci infilano dentro anche tante altre cose poco simpatiche che anche questo topic non ha mai fatto mancare.
Fuente, li conosci questi?
p.s. visto che O&A, louis ck, bill burr, cumtown, jimmy carr, travel man e via discorrendo hanno due cose in comune:
1- qui non li conosce un cazzo di nessuno
2- parlano l'inglese
stavo riflettendo se non fosse il caso di aprire un topic dove eventualmente discutere di questi argomenti che, pur essendo piu' mainstream di sanremo o vasco rossi, paradosssalmente qui non lo sono per nulla. Tipo [O.T.] Anglosphere Entertainment. Solo che come al solito dopo averlo aperto io lo lascerei morire entro 3 giorni. Per questo sto rimbalzando l'idea proprio a te.
Che io ritengo sempre piu' giusta (la lotta la p.c.), ma appunto se la fanno i trumpiani ci infilano dentro anche tante altre cose poco simpatiche che anche questo topic non ha mai fatto mancare.
Fuente, li conosci questi?
p.s. visto che O&A, louis ck, bill burr, cumtown, jimmy carr, travel man e via discorrendo hanno due cose in comune:
1- qui non li conosce un cazzo di nessuno
2- parlano l'inglese
stavo riflettendo se non fosse il caso di aprire un topic dove eventualmente discutere di questi argomenti che, pur essendo piu' mainstream di sanremo o vasco rossi, paradosssalmente qui non lo sono per nulla. Tipo [O.T.] Anglosphere Entertainment. Solo che come al solito dopo averlo aperto io lo lascerei morire entro 3 giorni. Per questo sto rimbalzando l'idea proprio a te.
Luttazzi sembra una di quelle cose che scappa quando sollevi una pietra. (Renato Schifani)
se hai tipo 40 anni e stappi lo spumante tutto convinto, senza tradire nemmeno una punta di ironia, ti trovo ridicolo. (Fuente)
Scrivi fistola anale (dboon)
Trez (Trez)
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
“AMO ESSERE UNA DONNA”
Con questa frase transfobica vergognosa Adele ha scatenato la rabbia cieca delle associazioni di categoria, in quanto lesiva del genere non-binario.
Adele era già finita nell'occhio del ciclone per aver vergognosamente perso 45 kg, scatenando anche in quel caso la rabbia sorda della associazioni di categoria, in quanto imposizione di un canone estetico.
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cro ... 299354.htm

Con questa frase transfobica vergognosa Adele ha scatenato la rabbia cieca delle associazioni di categoria, in quanto lesiva del genere non-binario.
Adele era già finita nell'occhio del ciclone per aver vergognosamente perso 45 kg, scatenando anche in quel caso la rabbia sorda della associazioni di categoria, in quanto imposizione di un canone estetico.
https://www.dagospia.com/rubrica-29/cro ... 299354.htm

Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Comunque a me piaceva quando era più rotondetta, ora è troppo tirata
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
La morale della favola parrebbe che sí, puoi anche fare successo avendo voce straordinaria in un corpo non appariscente, ma alla lunga (svanito l'effetto novitá) devi comunque omologarti.
Fosse anche indirettamente collegato alla sua autostima personale, faccio fatica ad escludere il discorso dell'omologazione a tutti i costi
Amicus Plato,
sed magis amica veritas.
sed magis amica veritas.
Detto che dal video messo così non si capisca, non si possa leggere, nemmeno chi siano, immagino di no perché altrimenti li avrei riconosciuti.
A parte ovviamente i primi 3, Cumtown ce l'ho presente ma tranne qualche sparuta clip, non li ho mai seguiti.p.s. visto che O&A, louis ck, bill burr, cumtown, jimmy carr, travel man e via discorrendo hanno due cose in comune:
Jimm Carr idem con patate, mentre Travel Man manco ce l'avevo presente.
Sì, non me la prendo manco io la responsabilità. In effetti il rischio naufragio parrebbe quasi ineluttabile, heh.Per questo sto rimbalzando l'idea proprio a te.
p.s. visto che non ero stato citato/taggato, ho visto il post per puro caso/culo.
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Articolo davvero interessante (il testo completo qui: https://www.fondazionehume.it/societa/d ... VwPRVLd_Tg)
Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”
Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.
Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.
Intervista di Luca Ricolfi al prof. Marco Del Giudice, docente di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi, che da 8 anni insegna e fa ricerca negli USA”
Del Giudice, lei ha lasciato l’Università italiana nel 2013 e sta facendo una brillante carriera negli Stati Uniti. Come sa, il 2013 (secondo alcuni) è anche l’anno del “Great Awokening”, ossia del processo di radicalizzazione del mondo progressista. Lei come ha vissuto quel processo? Quando ha avvertito il cambiamento? Fin dal suo arrivo in America, o solo a un certo punto?
Ho cominciato a vivere per dei periodi negli USA nel 2009, ma il fatidico 2013 l’ho passato in Italia a fare preparativi per il trasferimento. Quando ho preso servizio nel 2014 all’Università del New Mexico insieme a mia moglie Romina (che è stata assunta nello stesso dipartimento), il cambiamento di atmosfera già si sentiva. C’erano stati i primi incidenti tra docenti e studenti legati alla libertà di espressione, e si iniziava a sentire una tensione insolita rispetto a temi come le differenze di genere, che sono uno dei miei argomenti di ricerca come psicologo evoluzionista. Nel giro di un paio d’anni l’atmosfera nelle università si è scaldata con le sempre più frequenti “cancellazioni” degli speaker politicamente controversi, ed è diventata incandescente dopo l’elezione di Trump, che ha letteralmente traumatizzato la sinistra americana. Per dire, subito dopo le elezioni del 2016, molte università e dipartimenti (incluso il nostro) hanno iniziato a mandare mail di conforto a studenti e professori, e tenere gruppi di auto-aiuto per chi era rimasto sconvolto dal risultato elettorale.
La tensione accumulata, amplificata dai lockdown e dalle elezioni imminenti, è esplosa tutta insieme nella primavera del 2020, quando le proteste per l’uccisione di George Floyd hanno innescato una rapidissima auto-radicalizzazione nelle università, nelle scuole, nei media, nelle piattaforme online, e così via. Nel giro di pochi mesi si è arrivati a quello che mi sento di chiamare un clima da rivoluzione culturale, centrato soprattutto sulle questioni etniche e razziali, ma esteso anche a quelle di genere e agli altri temi del movimento che va sotto le etichette di “wokeness”, “social justice”, “intersectionality”, eccetera. Nessuna istituzione o ambito della vita sociale è rimasto fuori da questa ondata di piena, dall’esercito alle congregazioni religiose alle associazioni mediche e scientifiche, dai libri per bambini ai cartoni animati e alle etichette dei prodotti al supermercato. L’elezione di Biden non ha fermato questo processo ma anzi lo ha accelerato, almeno per ora. Mi ha colpito quanto poco di questi avvenimenti sia filtrato nei media italiani… i miei amici in Italia mi ascoltavano raccontare queste cose come se venissi da una specie di realtà parallela. Mi pare che negli ultimi mesi ci sia stato qualche passaggio di informazioni in più, ma soprattutto attraverso canali “non ufficiali” come social e blog.
Parliamo del politicamente corretto negli Stati Uniti oggi. Come definirebbe il politicamente corretto?
Non voglio provare a dare una definizione ma una prospettiva d’insieme. Il politicamente corretto di solito si riferisce al controllo del linguaggio, per esempio tramite la creazione di tabù, la sostituzione di parole e frasi con altre, la ridefinizione di parole comuni all’introduzione di neologismi e nuove forme di etichetta (per esempio indicare i propri pronomi). Se si rimane a questo livello è facile coglierne gli aspetti più assurdi, perfino al limite della comicità. Ma fermarsi qui sarebbe un errore, perché lo scopo del politicamente corretto è modificare la realtà, e il controllo del linguaggio serve solo e unicamente in quanto strumento per incidere sulla realtà. La manifestazione più ingenua di questo atteggiamento è l’idea che si possa modificare la natura delle cose semplicemente cambiando il modo in cui se ne parla; questo può sembrare una specie di pensiero magico, anche se riflette certe idee postmoderne sulla costruzione sociale della realtà. Però ci sono molti altri effetti sul mondo reale, ben più importanti anche se indiretti. Imporre con successo dei cambiamenti linguistici ha l’effetto di legittimare implicitamente le teorie che hanno motivato quei cambiamenti, giuste o sbagliate che siano (per esempio, la teoria che l’uso generico del genere maschile in italiano serva a rinforzare e perpetuare forme di discriminazione femminile). Bollare certe parole e idee come tabù o introdurre significati alternativi di parole comuni restringe lo spazio della discussione, rende impossibile esprimere critiche e dissenso, e in questo modo apre la strada a riforme istituzionali e legislative via via più radicali, in cui ogni passo giustifica quello successivo. Tutto questo viene fatto in nome di ideali nobili come “rispetto”, “dignità” e “uguaglianza”. Il politicamente corretto è difficile da contrastare proprio perché sfrutta l’empatia e l’altruismo delle persone (facendole sentire allo stesso tempo “dalla parte giusta della storia”) e mette i critici nella posizione di sembrare insensibili, irrispettosi e intolleranti.
È anche importante notare che i termini e pensieri “corretti” cambiano velocemente e in modo imprevedibile; quello che oggi è un discorso avanzato e progressista può diventare problematico e bigotto nel giro di pochi anni, o addirittura pochi mesi (come è successo alle femministe radicali, che oggi vengono bollate come reazionarie dagli attivisti transgender perché considerano il sesso come un fatto biologico inalterabile). Questo induce un senso di ansia strisciante e porta le persone ad evitare certi argomenti o autocensurarsi in via preventiva, fa sì che dibattiti cruciali restino impantanati in questioni semantiche senza uscita, e offre pretesti di ogni tipo per “cancellare” retroattivamente gli avversari e distruggerne la reputazione. C’è di più: il politicamente corretto inietta nella cultura l’idea che le parole siano letteralmente forme di violenza e oppressione, e quindi che le idee “pericolose” giustifichino il ricorso alla censura e alla violenza. Le persone spesso intuiscono tutto questo, e reagiscono alle manifestazioni del politicamente corretto in modi che sembrano sproporzionati o allarmisti se ci si ferma al livello della superficie linguistica. Ma la posta in gioco è molto più alta e molto più seria.
La cosa più importante è riuscire a vedere il politicamente corretto non come un fenomeno a sé stante relativo all’uso del linguaggio, ma come la parte più visibile di una “creatura” ideologica molto più complessa e articolata. La chiamo wokeness perché è il termine colloquiale più comune nel mondo anglosassone, ma anche perché coglie bene lo spirito semi-religioso che la anima (essere woke vuol dire letteralmente essersi “svegliati”, aver aperto gli occhi sui sistemi di potere e oppressione che controllano la vita delle persone). L’idea centrale è che la società sia organizzata secondo una matrice più o meno invisibile di pregiudizi e privilegi (lungo molteplici assi di razza, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, disabilità…) che si intersecano e rinforzano tra loro: la famosa “intersezionalità”. Questo crea dei sistemi di oppressione che si auto-perpetuano, operando per lo più a livello implicito e inconscio, e producono disparità tra gruppi e categorie sociali. La possibilità che esistano reali differenze culturali o biologiche (per esempio tra maschi e femmine), e che certe disparità non derivino da ingiustizie sociali ma da caratteristiche e scelte delle persone viene esclusa a priori e considerata moralmente inaccettabile, perfino violenta; anche solo suggerirlo come ipotesi è visto come una forma di oppressione e una manifestazione di sessismo, razzismo, ecc.
La wokeness vede la democrazia liberale come un’illusione che perpetua l’oppressione di donne, minoranze etniche e sessuali, e così via dietro una facciata di principi solo apparentemente giusti e imparziali. Qualunque opzione di neutralità politica (per esempio l’idea di tenere il più possibile separata la ricerca scientifica dall’attivismo, o di non usare le scuole per indottrinare politicamente i bambini) viene interpretata come una maniera subdola di perpetuare lo status quo e mantenere i privilegi delle categorie dominanti. Per questo la wokeness è sospettosa (se non ostile) verso principi liberali come la libertà di espressione o l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Abbraccia tutti gli aspetti della società e della cultura con la convinzione di essere dalla parte giusta della storia, e si concentra su come i sistemi di oppressione vengono interiorizzati (spesso in modo inconsapevole) ed espressi nella percezione, nelle emozioni, nel pensiero e nel linguaggio delle persone. In altre parole, ha una visione del mondo profondamente totalitaria, e si esprime in forme totalitarie (censura, processi sommari, delazione, “struggle sessions” e rieducazione, autodenunce e auto da fé…) ogni volta che prende il controllo di un gruppo o di un’istituzione. Il caso sconcertante dell’Evergreen College (documentato in dettaglio da Benjamin Boyce e Mike Nayna) è un esempio emblematico di cosa può succedere quando questi principi vengono messi in pratica a livello istituzionale.
Questa corrente ideologica ha iniziato a prendere forma nella sinistra accademica a partire dagli anni ’70, virando dalle questioni di classe a quelle di identità e incorporando alcuni concetti chiave della filosofia postmoderna. È cresciuta e si è sviluppata nelle università, in particolare nelle discipline umanistiche, in alcune scienze sociali come la sociologia e l’antropologia, e soprattutto nei dipartimenti di educazione (education schools) e nella galassia in continua espansione degli “studies” identitari (tra cui women’s studies, gender studies, queer studies, Black studies, Latino studies e così via). Dalle università ha continuato a diffondersi nelle scuole (ritornando poi alle università via via che i ragazzi crescevano e si iscrivevano al college), ai media, ai dipartimenti di risorse umane delle grandi aziende. Ha iniziato a farsi sentire negli anni ’90, ma non aveva ancora la massa critica per diventare una forza dominante nella sinistra, che pure stava diventando sempre più elitaria e sganciata dagli interessi della working class. Probabilmente anche grazie all’effetto accelerante dei social media, la massa critica è arrivata intorno al 2010, ed eccoci qua. Tra i critici e/o cronisti più interessanti di questo periodo convulso metterei Douglas Murray, Jordan Peterson, James Linsday, Bari Weiss, Wesley Yang, Zachary Goldberg, Richard Hanania, e altri collegati a riviste online come Quillette. Poi ci sono trent’anni di letteratura accademica e non; alla fine dell’intervista posso mettere qualche libro consigliato tra quwlli più recenti. Raccomando anche un’interessante video intervista sul politicamente corretto e identity politics fatta da Dario Maestripieri, mio caro amico e biologo all’università di Chicago.
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Articolo molto interessante, grazie.
Temo che purtroppo lo leggeranno in pochi e continueremo a vedere gli stessi riferiment a episodi beceri come fossero rappresentativi di tutto il processo e commenti “dove andremo a finire”
Temo che purtroppo lo leggeranno in pochi e continueremo a vedere gli stessi riferiment a episodi beceri come fossero rappresentativi di tutto il processo e commenti “dove andremo a finire”
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
con il politically correct non ci riempi il frigo, naeanche con la retorica democratica, o tantomeno la sempre verde ipocrisia, chissà come se la stanno passando i genitori di quei giovincelli radicalizzati delle così dette università
vedi come tutte le puttanate della bambagia vengono meno, ed è là che è bello vederli, a scannarsi per un pezzo di carne come tanti maiali.
dozzine di clienti che si prendevano a pugni, urlando, saltando e persino oscillando e lanciando seggioloni all'interno del ristorante di Bensalem, Pennsylvania, lo scorso venerdì. Secondo quanto riferito, la lotta per il cibo è scoppiata dopo che il buffet ha esaurito la bistecca.
"Tutto ciò che volevo era una bistecca!" è finita la bistecca!!!
cazzi loro

vedi come tutte le puttanate della bambagia vengono meno, ed è là che è bello vederli, a scannarsi per un pezzo di carne come tanti maiali.
dozzine di clienti che si prendevano a pugni, urlando, saltando e persino oscillando e lanciando seggioloni all'interno del ristorante di Bensalem, Pennsylvania, lo scorso venerdì. Secondo quanto riferito, la lotta per il cibo è scoppiata dopo che il buffet ha esaurito la bistecca.
"Tutto ciò che volevo era una bistecca!" è finita la bistecca!!!
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Come volevasi dimostrare
Ma è il bello di questo posto, si va in alto con l’intervista al professore di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi e poi arriva quello che spiega che “con il politically correct non ci riempi il frigo”. E niente, così
Ma è il bello di questo posto, si va in alto con l’intervista al professore di psicologia evoluzionistica e metodi quantitativi e poi arriva quello che spiega che “con il politically correct non ci riempi il frigo”. E niente, così
Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Adesso uscire da una condizione di sovrappeso è omologazione a tutti i costi? Allora gran bella cosa l'omologazione se ti spinge ad avere più amor proprio e curare il tuo aspetto e la tua salute.Gargarozzo ha scritto: ↑11/02/2022, 16:53La morale della favola parrebbe che sí, puoi anche fare successo avendo voce straordinaria in un corpo non appariscente, ma alla lunga (svanito l'effetto novitá) devi comunque omologarti.
Fosse anche indirettamente collegato alla sua autostima personale, faccio fatica ad escludere il discorso dell'omologazione a tutti i costi
Che poi Adele non aveva certo bisogno di dimagrire per vendersi meglio come cantante visto che si è super affermata nonostante l'aspetto estetico molto poco avvenente. Anzi probabilmente a livello di immagine, nel senso di marketing, ha perso qualcosa perchè tanto non è particolarmente fregna neanche ora con 30 chili di meno e poi perchè era una brutta di successo, caso abbastanza raro nel pop. Mentre ora, a quanto pare, è andata sul cazzo a tante per questo motivo.
- Gargarozzo
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
"Parrebbe", so che è difficile a credersi, è diverso da "a tutti i costi"
Secondariamente, qui non si parlava di salute ma di autodeterminazione.
E l'essere sovrappeso non è nemmeno la condizione di chi ha una grave malattia.
Far passare che (sempre ipoteticamente parlando) l'omologazione è legittima se fa dimagrire una persona contro la sua volontà (lo sottolineo di nuovo che magari si capisce, per ipotesi) per me è un messaggio assai ambiguo e pericoloso, che come in altri casi (oltre che il principio di autodeterminazione) esclude l'aspetto nervoso e psichico dal concetto di salute (che trovo estremamente ipocrita perché va solo a coprire la priorità estetica: ma forse si dirá che anche gli interventi estetici hanno ragione sanitaria...)
Secondariamente, qui non si parlava di salute ma di autodeterminazione.
E l'essere sovrappeso non è nemmeno la condizione di chi ha una grave malattia.
Far passare che (sempre ipoteticamente parlando) l'omologazione è legittima se fa dimagrire una persona contro la sua volontà (lo sottolineo di nuovo che magari si capisce, per ipotesi) per me è un messaggio assai ambiguo e pericoloso, che come in altri casi (oltre che il principio di autodeterminazione) esclude l'aspetto nervoso e psichico dal concetto di salute (che trovo estremamente ipocrita perché va solo a coprire la priorità estetica: ma forse si dirá che anche gli interventi estetici hanno ragione sanitaria...)
Amicus Plato,
sed magis amica veritas.
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
"bufera" per questo annuncio ("inviare profilo instagram")
“E' vero che in Russia i bambini mangiavano i comunisti?"
"Magari è il contrario, no?"
"Ecco, mi sembrava strano che c'avessero dei bambini così feroci.”
"Magari è il contrario, no?"
"Ecco, mi sembrava strano che c'avessero dei bambini così feroci.”
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
Sarà mica Rufus? 

La via più breve tra due cuori è il pene
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Re: Politically Correct: punto di non ritorno? (OT)
sì ha già ricevuto le prime foto instagram da un aspirante segretaria con tanto di curriculum allegato
“E' vero che in Russia i bambini mangiavano i comunisti?"
"Magari è il contrario, no?"
"Ecco, mi sembrava strano che c'avessero dei bambini così feroci.”
"Magari è il contrario, no?"
"Ecco, mi sembrava strano che c'avessero dei bambini così feroci.”