Premio Nobel per la Guerra
Sono passati alcuni anni dall’attacco della 'Coalizione dei Volonterosi' all’Iraq e nel frattempo l’equilibrio geopolitico globale è profondamente cambiato. Così come sono cambiati gli espedienti da parte della superpotenza globale, gli Stati Uniti, per rendere più accettabile all’opinione pubblica uno sforzo bellico.
Se negli anni dell’amministrazione Bush si prediligeva l’azione militare in prima linea, motivata con l’esistenza di una missione quasi divina affidata agli Stati Uniti per redimere il mondo dal cancro del terrore, durante l’amministrazione Obama la tecnica si è affinata e la preparazione dell’opinione pubblica si basa su elementi più strutturati.
Dopo l’avventura libica, portata avanti sotto l’egida della NATO con una forte esposizione mediatica soprattutto per Francia e Regno Unito, gli Stati Uniti starebbero pensando a quello che in realtà negli ultimi decenni è diventato il vero nemico: la Repubblica islamica iraniana.
Un attacco diretto, sullo stile dell’occupazione dell’Iraq del 2003, attivata sulla base di controverse prove dell’esistenza di “armi di distruzione di massa”, nel 2011 non è pensabile. Sebbene da anni i media e diverse agenzie internazionali conclamino a gran voce come l’Iran stia tentando di dotarsi di armamenti nucleari, una tale motivazione, dopo il precedente iracheno, non è più sufficiente.
Anche perché, di fronte ad una regione mediorientale e centrasiatica in cui sono concentrate le armi nucleari di paesi come Israele, Pakistan, India e, a quanto sembra, a breve anche Bangladesh, eventuali bombe iraniane potrebbero diventare soltanto mezzo di deterrenza, e non di attacco.
Ed è proprio il raggiungimento della deterrenza il vero obiettivo di Tehran, nonché l’incubo dei suoi più acerrimi avversari: Israele, Stati Uniti e Arabi Saudita.
Così, una volta archiviata la pluridecennale pratica Gheddafi, ora sembra il turno del prossimo “Stato canaglia”, l’Iran. Tuttavia, la delicatezza e l’importanza strategica estrema di una tale pratica richiedono una preparazione, anche mediatica, minuziosa.
In quest’ottica, i disordini scoppiati in Siria, l'alleato strategico dell’Iran nella regione, sono un 'punto di partenza'. Dopo gli ultimi eventi, un attacco al regime siriano sta risultando, per ampi strati dell’opinione pubblica mondiale, quasi un dovere: su questo filone si stanno avventurando gli Stati Uniti e diverse monarchie del Golfo, mentre il vicino di casa israeliano sta mantenendo un atteggiamento defilato.
Da parte sua Israele sta però mostrando i muscoli a Tehran: negli ultimi dieci giorni ha condotto la simulazione di un attacco aereo a lunga distanza sui cieli della Sardegna, con l’aiuto dell’aeronautica italiana, ha poi testato quella che sembra essere una versione aggiornata del suo missile intercontinentale Jericho 3, e infine ha ospitato sul proprio territorio un’esercitazione frontale sullo scenario di un attacco con armi chimiche tramite missile. Una tale attività su obiettivi che richiamano i potenziali strumenti di minaccia in dotazione attualmente dall’Iran, e soprattutto la sua ampia pubblicizzazione mediatica, costituiscono una serie di avvertimenti per l'Iran.
In contemporanea, Usa e Arabia Saudita hanno iniziato una nuova campagna mediatica contro l’Iran: di una decina di giorni fa la notizia di un presunto piano iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, così come la notizia secondo cui lo FBI ha scoperto un giro di traffici che da Singapore avrebbe contrabbandato in Iran, eludendo l’embargo internazionale, di moduli per radio frequenze che sarebbero stati successivamente ritrovati in ordigni inesplosi in Iraq indirizzati alle forze statunitensi.
Tutti questi elementi fanno pensare ad un’azione combinata da parte dei maggiori nemici dell’Iran, Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita, attraverso il coinvolgimento nel conflitto, e l’eliminazione, della Siria.
Qualora gli Stati Uniti, o la NATO, ricevessero il via libera a livello internazionale contro il regime di Assad, similmente a quanto è accaduto nel caso libico, l’opinione pubblica potrebbe non essere così contrariata.
Tuttavia, un eventuale attacco alla Siria innescherebbe un meccanismo a catena distruttivo: l’Iran sarebbe immediatamente coinvolto e a questo proposito entrerebbero in azione le forze israeliane supportate da quelle statunitensi, piazzate già nel vicino Iraq, nel Golfo Persico e in Afghanistan. Se poi le provocazioni militari israeliane degli ultimi giorni spingessero l’Iran a fare un passo falso e ad attaccare per primo, la via verso la guerra per Stati Uniti e Israele sarebbe, anche nei confronti dell’opinione pubblica, ulteriormente 'legittimata'.
D’altra parte la storia insegna che la grande crisi economica del 1928 è stata superata, per certi versi, anche grazie alla ripresa dell’industria bellica da parte di alcuni paesi nel corso della Seconda Guerra Mondiale. In una tale prospettiva, uno scontro radicale in Medio Oriente e Asia Centrale aiuterebbe diversi attori.
L’Arabia Saudita, qualora la produzione di petrolio dell’Iran fosse controllata dagli Stati Uniti, analogamente al caso iracheno, vedrebbe uno dei suoi maggiori antagonisti economici e politici allo sbando (è già stato notato come il blocco della produzione libica abbia favorito, nel 2011, le casse delle monarchie del Golfo).
Israele estirperebbe una volta per tutte i suoi due più acerrimi avversari nell’area, Siria ed Iran, mentre gli Stati Uniti potrebbero riaffermare il proprio ruolo di super potenza mondiale, recuperando il prestigio perduto e dando nuovo vigore alla propria industria bellica, stabilendo così un controllo diretto sulle enormi risorse della regione.
